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Lu capucanale ti lu trappitaru

Lu capucanale ti lu trappitaru è un’antica usanza ancora in auge in alcuni paesi del Salento, che consiste in dei pasti propiziatori, consumati ancora oggi nei frantoi, fra diversi attori: i proprietari del trappeto, il nachiro, i trappitari e i conferitori delle olive, per propiziare appunto una buona campagna olivicola.
Il pasto si tiene tradizionalmente nei frantoi, come quando i lavoratori non uscivano dal trappeto per tutti i mesi necessari alla lavorazione delle olive.

Le portate consistono in primis in una caldaia di verdure miste lessate: cicorie, cime di rape, mugnuli, scarole, bietole. Si pone nella cosiddetta limba ti lu trappitu (un’enorme conca di terracotta smaltata) del pane spezzato rigorosamente con le mani, si adagiano sopra le verdure lessate, si allaga il tutto di olio appena spremuto, si rivolta il tutto e si mangia con le mani, non prima di essersele per così dire disinfettate strofinandole con le nozze, che sarebbero le lastre di sanza appena estratta dai fiscoli (termine dialettale che non può avere una fedele trasposizione in italiano): delle tasche a forma di “ciambella”, circolari con un foro  centrale,  realizzate con corde di giunco intrecciate e legate all’imboccatura centrale da canapa filata.  Una volta riempiti, venivano infilati uno sopra l’altro ad un lungo palo verticale di legno e pressati da un torchio, che scendeva a mano a mano su di essi.

Seguono i legumi, in genere fave, fagioli e piselli secchi; questi vengono cotti separatamente nelle pignate, quindi si cominciano a versare nella conca le fave e si schiacciano con l’apposito  stumpaturu (grosso pestello di legno), poi i piselli e si stompano anche questi, infine i fagioli. Una volta stompato e amalgamato il tutto, si mescola diligentemente incorporando il pane spezzettato  e allagando naturalmente questa originale pietanza con l’olio nuovo. Si mangia con le mani intingendo tutti direttamente nella conca.

A cura di MASSIMO VAGLIO, QuiSalento, ed. 15-31 luglio 2010


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