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Ricordi della festa di Sant’Ippazio, patrono di Tiggiano

“Santu Pati o chiuviti o nivacati”!

“De Pasca bbufanìa tutte le feste vannu via, ma mo rispunne Santu Pati e mie acci me llassati, poi rispunne a Cannalora, nci su ieu e lu Biasi ncora”.

La festività del santo protettore di Tiggiano, S. Ippazio Vescovo e martire, ricorre il 19 gennaio. Vissuto nel IV sec. d.C., partecipò al Concilio di Nicea del 325 d.C., convocato dall’imperatore Costantino per dirimere l’eresia di Ario, l’eresia ariana. ll Vescovo di Gangra, sostenne teologicamnte che Gesù era una persona ma anche Dio, Ario esagitato gli sferrò un calcio nel basso ventre. I seguaci ariani e i donatiani, tesero poi un agguato al Vescovo che si recava, a piedi, a visitare le comunità. In una gola della Turchia settentrionale attuale, nella provincia romana della Paflagonia, alcuni nascosti lo lapidarono, ma fu una donna malvagia a dargli il colpo mortale, lanciandogli un grosso masso che lo colpì in testa. Il Vescovo, dopo un’agonia tormentata morì.

Santu Pati (San Ippazio)

Siccome Ario lo colpì nel basso ventre, i tiggianesi hanno associato quel gesto, al fatto che il Santo sia il Protettore dell’ernia. Sino a qualche anno fa, molte mamme coi loro neonati, venivano nella chiesa di Tiggiano, per pregare il Santo affinchè il male non colpisse i loro piccoli. Li collocavano sull’altare a lui dedicato mentre pregavano. Quando si riteneva che un bimbo fosse stato “miracolato”, la famiglia dello stesso, per ringraziare il Santo, doveva offrire le “pagnotte“, naturalmente, prima benedette, ed offerte ai fedeli che frequantavano la messa la vigilia, cioè il 18 gennaio.

Nell’ultimo decennio si è affermata la “Sagra della pestanaca“, una carota dal gusto più pregnante, alla quale è assimilato il fallo del Santo, dolorante dopo il calcio subito da Ario. Si premia per questo il produttore della “pestanaca” più grossa, più armoniosa, più lunga..più…

Mi porto allora con la memoria a circa cinquantacinque fa, quando avevo 9-10 anni, per poter raccontare come si svolgeva la festa, molto differente da come si svolge in questi ultimi anni.

A noi, ragazzi di quel tempo, la festa appariva un  unico, eccezionale, accadeva solo una volta all’anno, il 19 di gennaio. Ricordo i giochi che facevamo, come se volessimo preconizzare l’evento.

Alcuni giorni prima giocavamo “alli lapuni” era un gioco semplice ma che appassionava perché, nell’imminenza della festa, puntavamo qualche lira ed ognuno sperava di vincere per potersi comprare qualcosa durante la fiera. Per giocare bisognava fare nove buche per terra, non c’era ancora l’asfalto, le strade erano sbrecciate, nei vicinanze dei muri nemmeno quella, solo terra di calpestìo. Con qualche attrezzo di circostanza; un cacciavite, uno scalpello, un coltello… si svuotavano della terra nove buche;c’erano coloro che si specializzavano nel farlo.

Ricordo un particolare. Alla stazione ferroviaria di Tiggiano, c’era una famiglia tiggianese e, come tutte le famiglie di quel tempo,aveva molti figli, uno di questi era un mio coetaneo. Questi per poter giocare nella stessa stazione, perché era abbastanza lontano dal paese, scavò le nove buche per i “lapuni” sui blocchi, i basoli o basolati, che costituivano il marciapiede. Si costruì le nove buche e alcuni di noi ragazzi andavamo a giocare con lui alla stazione.

L’altro elemento che serviva per giocare era un arancio, l’altro ancora le poche lire che potevamo possedere. Il gioco consisteva nel fare la puntata, per esempio di cinque lire che si depositavano nella buca centrale delle nove. Si toccava a sorte. Il primo che doveva lanciare l’arancio si allontanava di circa tre-quattro metri. Da un punto convenuto, segnato da una pietra. Il primo lanciava il frutto, dopo averlo palpato, ristretto ai due lati opposti, tra cui il  peduncolo, in modo di dare allo stesso la forma più adeguata per vincere l’attrito che era rilevante, visto che si giocava su siti non lisci, non asfaltati, ma costituti di terra e di qualche pietruzza che comunque veniva eliminata lungo il tragitto che doveva compiere l’arancio per cercare di farlo entrare in una delle nove buche. Il giocatore dal punto di lancio, si curvava e prendeva la mira e con la mano destra, o con la sinistra per i mancini, lanciava per terra l’arancio calibrando la spinta e puntando nella giusta direzione.

Se l’arancio entrava in una buca, allora il giocatore  aveva diritto a prelevare la sua posta, cioè le cinque lire, così il secondo, finche non si completasse il turno. Poteva capitare, a volte che l’arancio si depositasse sugli intervalli tra una buca e l’altra e si diceva “a fattu tiddhra”, quindi il giocatore imprecava, bestemmiava perché l’avversa fortuna non gli aveva consentito di riscuotere almeno la sua posta. Poteva capitare anche, specialmente ai più bravi, ai più precisi, quelli che avevano un mano allenata al gioco, di prelevare tutte le poste poichè erano riusciti a far cadere l’arancio nella buca centrale,  aveva “fattu menzu”.

Era un modo, in cui tutti speravamo di poter aumentare il bottino per comprare qualcosa in più durante la fiera.

Si arrivava dunque alla vigilia della festa. Noi ragazzi eravamo “febbricitanti”, tanta era l’attesa, l’ansia, la curiosità di poter vedere, tanti “vinnitili”, commercianti ambulanti, recare, esporre e cercare di vendere la propria merce. Questi arrivavano con il traino che trasportava la merce anche il pomeriggio del 18 gennaio, in modo da poter cominciare a vendere fin dalla prima mattina del giorno successivo e prendere il proprio posto, prenotato in precedenza e assegnato dal vigile dell’A.C.

Di solito i commercianti avevano una famiglia presso la quale venivano ospitati, sia per l’alloggio, sia per il vitto; chi non aveva una famiglia ospitante, doveva arrangiarsi  e dormire al bene e meglio, staccato il cavallo che, anche lui doveva essere rifocillato con la biada che si portavano appresso.

All’alba del 19, si verificava un trambusto, un tramestìo: i commercianti scaricavano la loro merce dai carri e la esponevano lungo le strade e le gli spazi del centro storico, intorno alla chiesa dedicata al Santo. I commercianti di abbigliamento che arrivavano dalla provincia di Taranto, dalla provincia di Brindisi ed alcuni dalla provincia di Bari, giungevano qui con gli antichi autocarri che, per avviare il motore, dovevano farlo con una manovella, che si infilava in un apposito foro nella parte anteriore del carro.

La banda passava la mattina per le strade del paese e suonava accompagnata dai continui botti di carcasse. Il tutto cominciava con le prime campane, già alle 6 del mattino, in contemporanea con l’esplosione di cinque carcasse. A quell’ora i commercianti avevano esposto quasi tutti le loro mercanzie.

Ora toccava a noi ragazzi “vivere” la fiera. La notte, di solito, si passava quasi insonne, all’alba eravamo in piedi, contro le “parole”, i rimbrotti dei genitori che in genere dicevano: “arà scire a stura, è mprimu ncora, va ccurchete ttorna” (dove vai a quest’ora? E ancora presto, torna a dormire), ma noi imperterriti non lo facevamo, d’altronde i grandi, erano svegli anche loro. Facevamo la colazione che, consisteva o nel mangiare, “a paparotta, oppure la zuppa, ma non di latte, “u seru”, il siero, ciò che rimaneva dopo la scrematura della ricotta, si verificava un lotta, fra noi più piccoli a chi dovesse toccare “a manora”.

Chi aveva la fortuna di avere i nonni, questi si premuravano di regalare ai nipoti qualche lira, era “u paniri”; nel vico Margiotta, dove sono nato ed abitavo, c’era un vecchio, al quale facevo diversi “servizi” e lui mi ricompensava col “paniri”, mi chiamava: “Pazziu ve cquai, tè, ccàttete nnu giocattulu” (vieni qui, tieni, vai a comprarti un giocattolo), io ubbidiente, sino alla morte di croce, mettevo in tasca le poche lire, dicendo “grazie!” e, con quello che avevo accumulato giocando “alli lapuni”, uscivo di casa, ansioso di poter girare e vedere quali e quante mercanzie ci fossero. Naturalmente, il mio primo desiderio era quello di avvicinarmi al commerciante dei giocattoli, lì compravo il mio preferito che poteva essere una palla di stoffa riempita di crusca legata ad un elastico con la quale giocavamo lanciandola e ritraendola, oppure poteva essere una pistola che “sparava” acqua, oppure un’altra che sparava davvero, ma con delle capsule che contenevano pochissimi milligrammi di polvere pirica, questi si infilavano negli appositi chiodini del tamburo e quando si premeva il grilletto procuravano un piccolo “bang”, dal quale poi gustavamo il profumo della polvere pirica incendiatasi, ma era di un’innocenza esemplare.

Soddisfatti i nostri “bisogni primari”, andavamo in giro a visitare tutta la fiera. La mia attenzione era rivolta al carro che vendeva “a cupeta, i mustazzoli”. A “cupeta” è ancora oggi la barretta di mandorle sgusciate o no, cotte in abbondante zucchero, fatte raffreddare, si tagliavano in varie dimensioni per essere vendute. Quel carro, unico allora, lo ricordo sempre posizionato vicino alla chiesa, perché dalla mattina presto, sino alla tarda sera aveva l’opportunità di vendere “cupete” o “mustazzoli”, i mostaccioli.

L’altra mia attrazione era la “scapece”. Uno o due pescatori-commercianti gallipolini esponevano delle tinozze colme di scapece. Erano i “pupiddhri” fritti e trattati con lo zafferano e un po’ d’aceto, venivano fatti marcire col pane grattugiato nella tinozza, che  si vedeva colma di uno strato giallo, dato dallo zafferano, con immersi i pesciolini. Per la famiglia era  devozionale comprare la “scapece”, “a regna” affumicata e a “cupeta”, quasi un obbligo.

Un’ nostra attrazione era la fiera degli animali. Nel sito destinato si potevano vedere commercianti di cavalli, di asini, di buoi, mucche, capre, pecore, di maiali. Quando la famiglia intendeva comprare o vendere un capo di bestiame, era “u tata” (il papà) che doveva farlo. Se si doveva vendere una capra, una pecora, un vitello, una vacca, dovevamo accompagnarlo.Era lui, di solito con “u tramanzanu”, cioè il “venale” che favoriva la compravendita e che, naturalmente, guadagnava la tangente da entrambe le parti. Quando dovevamo vendere un maiale già “ingrassato”, ancora il venale favoriva la vendita al macellaio che approntava una sorta di osteria provvisoria, dove vendeva sia la carne cruda, ma anche cotta, “i pezzetti allu sucu”; il locale richiamava l’attenzione dei clienti perché all’esterno bisognava esporre un ramo di albero d’arancio come segnale che in quel locale si poteva mangiare “a pagnotta culli pezzetti”, oppure mangiare la carne lessa, sempre e solo di maiale.

Per gli uomini era una tappa obbligata: “nna pagnotta culli pezzetti e menzu quintu de mieru”, sia per i paesani che per i forastieri.

Gli anni in cui sono stato “chierichetto” o iscritto all’azione cattolica, il sacerdote ci incaricava di alcune mansioni all’interno della chiesa: uno di noi doveva tenere un quaderno e “segnare” la recita di un rosario a S. Ippazio e il devoto offriva quanto intendeva offrire, il sacerdote raccoglieva le messe, cioè molti devoti offrivano una quantità di denaro volontariamente affinché il sacerdote nel corso dell’anno celebrasse una messa in onore di S. Ippazio e secondo le intenzioni del devoto o, in genere, devota.

Un’altra tradizione vedeva i devoti avvicinarsi alla statua, passare il loro fazzoletto da naso, lisciare una parte della statua e portarselo alle labbra per baciare lo “spirito” del Santo. Alcuni offrivano denaro: si appendeva al collo del Santo una stola e lì, io o altri, attaccavamo con gli spilli il denaro dei devoti, questo sino alla sera inoltrata.

Quando la famiglia decideva, una volta l’anno di comprarci il cappotto o le scarpe, era la mamma che ci conduceva ai commercianti di turno. Conservo una foto del 1953, dove siamo fotografati un gruppo di 5 di noi Margiotta: due femmine e tre maschietti; io e mio fratello più piccolo, esibivamo due paia di scarpe di gomma bianche con due “occhi” sul collo della scarpa. Si cominciava a produrre le scarpe industrialmente, ma erano di gomma, fredde d’inverno, calde d’estate, ma allora potevamo, anzi, dovevamo risparmiarle, si circolava scalzi, sia in paese che in campagna.

Giungeva l’ora del pranzo. Era il momento della più alta convivialità, insieme alla Pasqua e a Natale. Noi eravamo undici, poi si aggiungevano i nonni paterni, diventavamo tredici. Naturalmente la mamma cucinava nel “focalire” (camino), quando bolliva l’ acqua nella “cazzalora” (casseruola), doveva  “calare” circa tre chilogrammi di spaghetti o altro tipo di pasta. A fianco del “quadarottu”, c’era “a cazzallureddhra” (un pentolino) dove veniva cotto il sugo con i pezzetti di carne “de porcu”. Si doveva prelevare la forchettata di pasta fumante da un unico grande piatto di argilla posizionato al centro della tavola, figuratevi il “casino” che succedeva, ognuno di noi pretendeva di avere la precedenza nell’inforchettare la pasta ed erano continui litigi; bisognava rispettare prima i nonni, poi i genitori, poi “i ranni”, i fratelli più grandi e poi toccava il nostro turno; dei pezzetti ne toccava uno cadauno.

Finito il pranzo, noi uscivamo da casa e ci raccoglievamo nei siti conosciuti, per continuare a giocare o “alli lapuni”, intanto le baracche cominciavano ad allontanarsi con i mezzi con i quali erano giunti.

Arrivava il momento della processione con la statua del Santo. Migliaia di persone si radunavano nello spiazzo antistante la Chiesa, tutti i tiggianesi, ma anche molti devoti forastieri.

Prima che il Santo venisse portato fuori dalla Chiesa si svolgeva l’asta per chi doveva assumersi l’onere di condurre a spalla la statua dello stesso e chi doveva condurre lo stendardo, lungo circa cinque metri, avvolto da un panneggio, sormontato da un gruppo floreale.

Le due gare erano separate: venivano condotte dal presidente della commissione per i festeggiamenti del Santo; si aggiudicava la gara, naturalmente il gruppo che offriva di più, lo stesso per lo stendardo. Aggiudicatisi le due gare, il Santo poteva uscire dalla Chiesa.

Prima però della statua ci doveva essere l’esibizione di colui che il gruppo designava per portare fuori dalla chiesa lo stendardo e lo doveva fare, lanciandosi dall’interno della chiesa sino a decine di metri distante dalla stessa, tenendo lo stendardo orizzontalmente, poi con uno sforzo sovrumano, lo innalzava verticalmente, gli spettatori commentavano la sua bravura ed abilità, poi i più anziani dicevano fra loro: “ma prima era cchiù llongu ncora, poi l’onnu ncurtutu, ca era mutu pesante” (prima era molto più lungo, è stato accorciato poiché era troppo pesante).

Appena la statua si affacciava sul portone d’ingresso principale, la banda eseguiva in benvenuto e si dava il via ad una batteria di fuochi. La processione cominciava con i Confratelli dell’Assunta con un loro stendardo e un crocefisso, guidati dal priore e i due suoi più stretti collaboratori, che impugnavano il bastone sormontato da un motivo floreale, quello del Priore era più ricco e più alto. Seguivano i vari gruppi di chiesa: l’azione cattolica, l’apostolato di preghiera, i “luigini”, ed altri. Seguiva un nugolo di chierichetti, subito seguiti dal sacerdote che teneva in mano la teca o reliquiario con un frammento d’osso del Santo, almeno così si crede dalla pietà popolare, poi la frotta di persone che si erano aggiudicata l’asta e si scambiavano i ruoli di tanto in tanto, in quanto ognuno aveva diritto a condurla per una frazione di strada, ma anche perché è molto pesante. Subito dietro la statua si schieravano le autorità civili e militari: il sindaco con alcuni della Giunta, il maresciallo dei carabinieri ed un altro carabiniere. Dopo si schierava la banda che eseguiva le solite marce, oppure l’Ave Maria o altre arie religiose, intervallate da una posta di rosario recitato dal sacerdote. I temi erano tanto sincronizzati che la recita del rosario terminava, al ritorno, proprio nei pressi della chiesa, la banda eseguiva l’ultimo pezzo e il sacerdote e la statua entrava in chiesa.

Nei pressi della chiesa stazionava sempre la baracca che vendeva “e cupete”, quelli che vendevano noccioline, quelli con le “pestanache” e le “sciscele”.

Quando calava la sera, i commercianti dovevano provvedere ad illuminare la propria “baracca”, bisognava azionare le “citilene”, cioè degli oggetti somiglianti un po’ alle attuali lampade da campeggio, non saprei come definirli, che caricati col “carburio” ed accesso con i “pospiri”, alias fiammiferi o con la “machinetta”, altrimenti detto accendino, illuminavano le baracche.

A conclusione i recipienti di carburio venivano ripuliti dei residui che lasciavano per terra; noi ragazzi individuavamo la location, perché l’indomani dovevamo raccogliere un po’ di carburio consunto, col quale, adoperando una di quelle grosse chiavi di una volta, si riempiva col carburio il vuoto della chiave, si metteva un tappo provvisorio, poi si legava un chiodo all’imboccatura della chiave e lo si faceva urtare con violenza al basolato del marciapiede, l’urto causava un piccolo scoppio che ci divertiva, era più bravo chi ne raccoglieva di più e chi procurava lo scoppio più fragoroso.

Si attendevano poi le ore 19,00, quando si dovevano sparare le “carcasse”; una serie di fuochi di artificio che meravigliava molto gli spettatori, anche perché c’era sempre una sorta di gara con quelli di Corsano che avrebbero festeggiato San Biagio il tre di febbraio, i commenti potevano essere di questo tipo: “mo vadimu i cursanisi cci fannu” (vedremo cosa faranno ora i corsanesi), l’ultimo botto, è il più potente e allora si diceva: “quistu mo spunna i cieli”(questo spacherà il cielo).

Il giorno dopo, detto “a scapola de Santu Pati”, noi ragazzi correvamo presto sulla postazione da dove erano stati sparati “i fochi”, perché potevamo trovare spesso dei “tronetti” (petardi) non esplosi, li raccoglievamo e li facevamo esplodere in tante circostanze.

Finiva così la vecchia festa “de Santu Pati”.

Rocco Margiotta


2 commenti su “Ricordi della festa di Sant’Ippazio, patrono di Tiggiano

  1. Cetty Polizzotto ha detto:

    Bellissima festa del Patrono…descritta in modo superlativo lasciando immaginare … ogni minuziosa descrizione il folclore…la gioia dei bimbi e della gente del luogo……

  2. mimmo lagana' ha detto:

    buon giorno ce un ortaggio della mia infanzia che ricordo con molta nostalgia. ed e la pastinaca viola che ho visto nel vostro sito mi piacerebbe
    trovare dei semi li ho cercati per anni adesso ho scoperto che a un santo patrono. vi chiedo sarebbe possibile avere dei semi io abito a torino
    se mi fate la cortesia io vi mando i soldi e l’indirizzo dove mandarli grazie
    saluti mimmo lagana’

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