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La chiesa di San Biagio a Calimera

“[…]- Guàrdati dai calimerioti che sono gente con due lingue

– Oh nonna, perché mai, nonna, con due lingue? — dicevo io sgomenta, perché pensavo che avessero due lingue in bocca. E mia nonna spiegava :

-Una lingua è « latina », e l’altra è « greca ».

Ometteva l’italiana che per mia nonna non esisteva, altrimenti avrebbe detto che le lingue dei calimerioti erano tre.

– Con due lingue — riprendeva mia nonna — e senza terra. –

– Senza terra? — chiedevo io — Non hanno terra dove poggiare? –

– No. –

– Dove costruire una casa? –

– No. –

– Neanche — rispondeva mia nonna, e mi lasciava andare a letto così, con quelle immagini in testa, per quella crudeltà spensierata e un po’ balorda che hanno certe volte i vecchi. Ma io non riuscivo ad addormentarmi: il pensiero dei calimerioti con due lingue e sospesi, simili ad uccellacci che volteggiano su un campo, senza riuscire mai a posarsi a terra, mi toglieva il sonno. La mattina mi svegliavo e dicevo :

– Oh nonna, perché i calimerioti hanno due lingue? –

– Zitta e lavati, — diceva mia nonna — e non mi chiedere più dei craunàri. –

– Perché, nonna, craunàri?

– Perché non hanno terra. E ora basta e alzati. –

– Perché — io insistevo timidamente — non gli diamo un po’ della nostra terra?

Mia nonna mi guardava, poi, di colpo, rideva stridula.

– Perché hanno due lingue — diceva e si metteva a travasare il vino nei boccali verdi.

Lungo tutta l’infanzia, queste le poche notizie di Calimera che mi perseguitarono, che mi accesero dentro una grande curiosità. La verità venne fuori più tardi. Ma pare che questo sia il destino di noi salentini, scoprire la nostra terra poco a poco, come fosse un continente sconosciuto, e meravigliarci, e restare a bocca aperta alle scoperte che facciamo, alle inaspettate bellezze che incontriamo, agli aspetti inediti che ci si parano dinanzi a bruciapelo, e quasi ci lasciano storditi. Forse la ragione è questa : un tempo in questa terra luminosa viveva un popolo felice. Poi cominciarono a venire i turchi e noi tutti impauriti e tremanti trasportammo le nostre case all’interno, ci rintanammo, ci appiattimmo, non ne volemmo più sapere di mettere il naso fuori di casa nostra. […] [1]

Così Rina Durante parla di Calimera. Poche frasi che, anche se scritte ormai più di 50 anni fa, non possono che risultare sempre più attuali. Parla di un popolo che non conosce la sua terra, che se ne stà rinchiuso in casa per una consolidata forma di abitudine. Ma anche un popolo capace di meravigliarsi, ogni giorno, per quello che il suo territorio ha da offrire. Come poter passare un’intera vita in un luogo eppur osservarlo ogni giorno con occhi nuovi, come fosse la prima volta, oggi, domani, e l’indomani ancora.

Molto è già stato tolto allo sguardo, molto è stato tolto alla memoria collettiva. I craunari (carbonai), questi uomini dalle due lingue che vivevano a Calimera, e non solo, che intorno al XVIII secolo si videro proprietari di una grandissima quantità di legname proveniente da alcuni boschi sottratti al regime feudale. Gli alberi non servivano. Ciò di cui la gente aveva bisogno era la terra da coltivare. Si decise così di disboscare ampie aree e riutilizzare il materiale ricavatone per farne del carbone vegetale. Quella del carbonaio divenne ben presto una vera e propria arte nel Salento e come tale meritava l’egida di un Santo, il vescovo Biagio, venerato in un cappella posta ai margini del bosco, oggi sita nell’omonima masseria.

Chiesa di San Biagio

Un piccolo gioiello semi-ipogeo, a lungo dimenticato dalla stessa Calimera, e riportato al centro dell’attenzione di una processione di fedeli in occasione dei festeggiamenti per San Biagio e la festa dei Craunari, il 3 febbraio, grazie all’iniziativa di un sacerdote che si recava saltuariamente per celebrare la messa inserendo, nel piccolo vano al centro dell’altare, una chianca benedetta in pietra leccese che fungeva da “altare portatile”. Un’iniziativa lodevole destinata a consumarsi in breve tempo. La chiesa venne nuovamente abbandonata, trasformata in un fienile, anche sulle carte bollate, prima di vedersi riconoscere il vincolo di tutela dal ministero (nel 1991) grazie all’interessamento del circolo culturale Ghetonia. I primi interventi di recupero, un progetto di restauro, un’impalcatura in legno e lamiera per impedire agli agenti atmosferici di godere di ulteriori sfregi al prezioso monumento. Tanti buoni propositi ma purtroppo ancora nessun intervento decisivo per il totale recupero del bene, nonostante siano trascorsi altri vent’anni. Un’appello denuncia sulle pagine del Corriere del Mezzogiorno del 2 Aprile 2013 da parte del presidente di Ghetonia, Silvano Palamà, fondatore anche della casa museo della civiltà contadina e della cultura grika, ha risollevato il problema su una questione divenuta ormai estremamente urgente ma che non ha ancora trovato un riscontro pratico.

Due vani voltati a botte separati da pochi gradini. Un primo ambiente con vasche adibite probabilmente a mangiatoie,una rudimentale acquasantiera e una lapide, del 1758, che recita “INGREDERE LIMINA PURUS” (il puro varchi la soglia) e che sormonta l’arco di ingresso all’ambiente sito ad un livello inferiore rispetto a quello precedente. Al suo interno un rozzo altare e un affresco del Santo vescovo titolare della cappella insieme a Sant’Eligio.

Accesso al vano semi-ipogeico

San Biagio è molto popolare nelle campagne tant’è vero che viene considerato il patrono dei contadini. Una volta nel giorno della sua festa, in molti paesi dell’Europa Meridionale si usava portare in chiesa un pugno di cereali che, benedetti, venivano poi mescolati a quelli della semina perché assicurassero un buon raccolto. Questo patronato che non ha alcun rapporto con la storia del santo, deriva probabilmente da riti precristiani connessi al periodo di passaggio fra l’inverno e la primavera: erano cerimonie di lustrazione dei campi e del bestiame [2]

Affresco di San Biagio e Sant’Eligio

Marco Piccinni

BIBLIOGRAFIA

[1] Rina Durante, Dolmen Placha, in  La Zagaglia : rassegna di scienze, lettere ed arti, A. V, n. 19 (settembre 1963).

[2] Alfredo Cattabiani, Santi d’Italia. Vita, leggende, iconografia, feste, patronati, culto. BUR (1993)

[3] Antonio Ancora, Un gioiello rischia di scomparire. L’ex chiesa di San Biagio in attesa di interventi da 20 anni. «Gli enti la prensano a cuore prima che crolli,  in La Gazzetta del Mezzogiorno del 2 Aprile 2013


2 commenti su “La chiesa di San Biagio a Calimera

  1. francesco lopez y royo ha detto:

    qualche anno fà si faceva una festicciola con messa , accensione di un falò e qualche degustazione, ora! è tutto finito?

  2. Mario Zito ha detto:

    Mia Nonna Materna era nata a Calimera. Si chiamava Capone Francesca. Qualcuno di Calimera. Con questo Cognome”Capone ” Vive ancora a Calimera e Dintorni?”

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