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La “Medicina d’altri tempi” tra maghi e guaritori

SALVE (Le) – Una nuova opera del maestro Gino Meuli. Che da una vita indaga il nostro passato, facendolo interagire col presente. Contribuendo a rafforzare le nostre radici, tener viva la memoria, arricchire il mosaico della nostra identità di nuove tessere e che già ci ha dato “Epistolario di un sogno”, Anche i salentini scrivevano al Duce” (1997), nel 2004 il pregevole “I dialetti del Capo di Leuca” (tre edizioni), nel 2010 “Alla ricerca del tempo perduto” e nel 2014 “Correva l’anno”.

E anche in questa nuova ricerca avviene come per magia la ricomposizione di un mondo arcaico, si percepisce la sua energia e spiritualità, l’etica non scritta, le sue leggi, codici, asprezze e miserie ma anche bellezza. In un parola: il mondo che abbiamo alle spalle aveva un’anima, oggi quasi del tutto relativizzata. L’universo dove la medicina empirica cercava di alleviare le sofferenze dei poveri, esposti dalla loro condizione a tutte le malattie.

“Medicina d’altri tempi nel Capo di Leuca” (Malattie, terapie, strumenti clinici tra guaritori, maghi e fattucchiere), Arti Grafiche Panico, Galatina 2016, pp. 128, s. i. p. (introduzione del sindaco di Salve Vincenzo Passaseo, dotta prefazione del prof. Hervè a. Cavallera, patrocinio Società di Storia Patria di Tricase, sostegno Comune di Salve) indaga un periodo che si dilata sino agli anni del dopoguerra, la grande emigrazione che desertifica le terre, il boom economico.

Erbe e superstizioni, credenze popolari e “sentito dire”, guaritori improvvisati e vicini di casa praticoni rappresentano i punti di riferimento della medicina che nasce dal basso e orizzontalmente agisce nella comunità rurale che la esprime, con gli infusi e decotti, le piante miracolose e le ricette magiche.

Un apparato sincretico che a prima vista potrebbe apparire anti-scientifico, ma che invece è intriso della fiducia nella scienza patrimonio dei Lumi e, pare quasi un paradosso, si collega ontologicamente al pensiero e alle superstizioni di Cagliostro e Tafuri, per citarne solo due.

Se questi espedienti non sempre guariscono, hanno però un grande potere di suggestione, quello che dai tempi di Ippocrate di Kos si definisce “effetto-placebo”. Curiosamente, tali rimedi tornano di moda, perché la medicina moderna da popolare è tornata elitaria: oggi in tanti non possono curarsi. E che sia in atto un processo di arretramento, di disfatta dello stato sociale, lo prova anche la “scoperta” fatta dallo storico Meuli: Re Ferdinando II, nel 1850, invita i Comuni a pagare le medicine ai poveri, le famiglie numerose, i bambini abbandonati, i malati.
Questo saggio ha un enorme potere evocativo nel mio vissuto. E’ stato come entrare nella macchina del tempo: i ricordi in b/n sono esplosi come una cascata trattenuta da un argine d’improvviso rimosso.

La mia mamma aveva mani grandi e bianche. Morì giovane perché era cara agli dei e nel poco tempo che le toccò in sorte, pur essendo forestiera (veniva da Lucugnano, fu contadina nelle terre del barone-poeta Comi e grande narratrice di novelle di Papa Galeazzo), ebbe molte amiche.

Oggi sono vecchie – a me la sorte ha negato il dono di vederla avanti negli anni – e quando parlano di Antonietta la chiamano “la Santa”, “la Madonna” e altri epiteti simili. Non solo perché era bella e sorridente, aveva preziosi occhi acquamarina e la pelle di neve, ma anche perché per loro, averla avuta amica sempre presente e confidente discreta, è stata una magnifica esperienza di vita che ricordano ancora con commozione.

Rimestando nell’albero genealogico, ho scoperto che forse era di origini sveve, lontana discendente degli Hohenstaufen. In effetti aveva carattere, il senso del dovere, dell’ordine, dell’educazione, e mai la sentii alzare la voce con mio padre. Quando costipavo, scaldava al fuoco – era una maestra nell’acconciarlo e accudirlo – l’olio d’oliva del nostro campo e me lo sfregava forte sul petto. Mi faceva male, ma se protestavo diceva: “Come sei miracoloso!”, Il giorno dopo però già stavo meglio.

Se cadevo preparava cenere e aceto e mi faceva i “bagnoli” sulla gamba dolorante, finché il dolore non svaporava. Se poi si sospettava una frattura delle ossa, allora mio padre Cosimo mi portava da un ortopedico dilettante. Ricordo che andavamo in una grande casa all’uscita di Alessano, verso le cave di carparo delle Matine, con qualche uovo delle galline del nostro pollaio, che Antonietta accudiva severa, facendole razzolare nel giardino, dove cacciavano i vermi d’acqua. Non volavano mai tornare nel caddanaru (pollaio).

La stuppata di massaru Franciscu o del figlio Quintino aveva effetti miracolosi. Come l’uovo sbattuto col marsala sulla mia crescita e il latte bollente che Antonietta mi dava quando avevo i “vermi”, facendomi sedere sul rinale (vasino).

La nostra piccola casa nuova (con la “A” di Antonietta sul gradino d’entrata) odorava sempre delle piccole margherite della camomilla che teneva nella mattrabbanca, pronta all’uso. Successe più d’una volta che all’improvviso qualcosa mi pungesse nell’occhio: un dolore insopportabile, che mi faceva piangere. Lo chiamavano orgialuru. I vecchi sorridevano e dicevano che era perché guardavo troppo le donne, il didietro, le gambe, i seni enormi quando li cacciavano per allattare i neonati porgendo il capezzolo scuro. La vecchia Milia (Emilia) aveva mani nere e ossute. Nel suo cortile angusto, mi faceva alzare la testa come a voler guardare in alto e con le foglie untuose dell’erba del vento (parietaria) lavorava sull’occhio finché il dolore non spariva. Non chiedeva niente, ma credo che poi Antonietta e Cosimo si disobbligavano (la bligazione) con qualche piccolo dono: una vuliata calda, un cavolo viola, un po’ di fichi “paradiso”. A quel tempo nessuno si teneva niente, si era sempre grati agli altri.

Più d’una volta ebbi bisogno dell’aglio sulla puntura delle vespe, che a quei tempi forse erano più aggressive: la mamma provvedeva con la dolcezza del sorriso e la forza delle braccia per sfregare lo spicchio dell’aglio sulla zona gonfia del braccio. Non ricordo cosa mise quando una volta, era d’estate, tornai dal mare di Novaglie col braccio gonfio per aver incontrato una medusa. Forse una patata aperta in due. Per il grosso e brutto porro (verruca) che mi apparve un giorno sul dito medio destro, Antonietta mi disse che dovevo gettare un numero dispari di ceci nel pozzo.

Me ne diede 7 se ben ricordo. Lo feci ma il porro restò lì, più brutto di prima. Poi Antonietta si ricordò che i ceci dovevano essere gettati dando le spalle al pustale (bocca): così feci e con mia grande meraviglia dopo pochi giorni il porro sparì.

Nonna Francesca, la madre di Antonietta, esagerò col chinino per la malaria alla masseria di Ginosa dove coltivavano tabacco: perse quasi il bene dell’udito, tanto che a Lucugnano la sua nomea è “Surda”. Una volta zia Maria di Grottaglie sperimentò su di me strani fumetti in bocca per curare un dente cariato con una pianta i cui semi erano uguali a quelli del pomodoro e che mi fecero sputare i vermiciattoli della carie. Forse erano i semi, ma tutti credevano che fossero le carie e se la zia aveva fatto tanta strada per curare i miei denti non doveva essere contraddetta: questione di educazione e poi era nata contadina e conosceva tutte le piante.

Medicina d'altri tempi nel Capo di Leuca

Medicina d’altri tempi nel Capo di Leuca

Sentii lodare più volte le virtù delle foglie di tabacco, del rovulu (alloro), dell’urina calda, del vino pure caldo e zuccherato per il costipo e della bava di lumaca contro il mal di stomaco. Con sorrisi maliziosi, i vecchi poi si raccontavano a bassa voce le virtù di una pianta il cui lattice gocciolato sulle parti intime provoca un vorace desiderio di femmina: una sete difficile da placare. Ricordo la pianta, ma non ho mai verificato. Di recente ho appreso che con venti foglie di spaccapetre (cresce nei vecchi muri, il vecchio che me lo svelò si raccomandò: “Segnatela sul computer”) si acconcia un infuso che frantuma i calcoli e che un infuso di gramigna fa miracoli contro il dolore che essi provocano. Ricordo il bottiglione con le sanguette (sanguisughe) sul comò della vecchia Marianna e il dottore che ogni giorno veniva a misurarle la pressione arteriosa. A un mio cugino diedero troppo infuso di papavero per farlo dormire: rimase intontito per tutta la vita.

Questo libro del “mio” maestro Meuli (mio perché fu lui tanti anni fa a insegnarmi la consecutio temporum) mi ha così ridato il dolce profumo dell’infanzia. Il tempo passato in cui tutto aveva un buon odore, un sapore dolce, era fatto con amore e l’innocenza del cuore. C’era poco, ma bastava e avanzava e tutti eravamo felici. Siamo cresciuti mangiando tursi (gambi) di cavoli: oggi apprendiamo che sono un ottimo antitumorale.

Il disprezzato Re Borbone, come già detto, si preoccupava della salute e le sofferenze dei suoi poveri sudditi. Oggi se ti ammali non puoi curarti: i poveri sono zavorra inutile, il welfare dissolto. E così, l’olio d’oliva, che nonostante la xylella non ci manca, è tornato a essere la medicina dei poveri. I Comuni, prima dell’unità d’Italia, pagavano i farmaci ai poveri (è andata avanti sino agli anni Sessanta). Oggi le medicine sono quasi tutti a pagamento.
Sono tempi disumani, senz’anima, in cui è faticoso vivere perché abbiamo smarrito il senso di comunità. Il cinismo regna sovrano, è venuto meno il collante che tiene insieme il nostro piccolo mondo. Così l’Ottocento, il mondo contadino che ci siamo lasciati alle spalle per entrare nella modernità, pur con tutte le sue malattie e la vita breve, la dura fatica da sole a sole, il pane nero e la terra bassa, ci appare un Eden, un gineceo in cui vorremmo tornare.
Il libro sarà presentato il 12 agosto a Salve (ore 21), terrazza di Palazzo Ramirez.

Francesco Greco


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