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Quando Cosimo mandò a quel paese Padre Pio

Un racconto inedito di Francesco Greco

Mio padre è stato uno dei pochi al mondo, credo, a mandare a quel paese Padre Pio.
Mio padre è un mito.
Andò così.

Nonno Patintoni (Ippazio Antonio) si era ammalato di tumore alla gola, aveva 56 anni e 6 figli tutti vacantii (non sposati).

Dal Capo di Leuca affacciato sul Mediterraneo e le isole greche (Corfù e Fano) visibili quand’era tramontana, aveva portato tutti a Mar Piccolo, Taranto, a coltivare il grano, il tabacco e la vigna, cogliere fichi e mandorle, lavorare alle cave di carparo.

Avevano appena seppellito la mamma ranne (nonna) Carmela, il 19 agosto 1937 (era nata il 22 gennaio 1852 e aveva fatto in tempo a prendere in braccio l’ultimo nato, zio Lorenzo, che è del 1935 (l’altra, Vita Maria, dice zio Vito, fumava il sigaro).

Era il 1939.

Era un abile zoccatùre (lavoratore delle cave): le fondamenta del Palazzo del Comune di Taranto sono sue.

Era uno molto preciso…”, ho sentito dire da altri lavoratori della pietra che ora sono morti. Cosa ripetuta da zio Vito, il secondo di casa. implacabile memoria storica della nostra casata (abbiamo anche uno stemma araldico), capace di ricordare che vento c’era il 25 aprile del 1949, di primo mattino.

Cosimo era il grande di casa e non voleva sottomettersi. Ma spinto da sua madre Mariangela e dalla sorella, zia Lucia, nelle cui mani morì, decisero di andare a San Giovanni Rotondo a chiedere la grazia a Padre Pio.

Si diceva che facesse miracoli e doveva essere vero se la notizia era arrivata anche nelle lontane masserie dove si lavorava da sole a sole e la domenica si andava a messa. Il frate tuttavia aveva anche fama di isterico, di esaurito totale, ma questa notizia tra i filari del tabacco e della vigna non era mai arrivata.

Loro vivevano a Leporano, alla “Bianca”, affacciati su Mar Piccolo, mentre mia madre e i Guglielmo (Pantaleo, Addolorata detta “Vata”, Lucia, Ntunucciu) stavano a Ginosa, alla masseria “La Redenta”.
Lì si sono conosciuti e innamorati.

Mia madre era una ragazza delicata, dolcissima ma col suo bel carattere, mio padre era tutto muscoli e nervi: la fatica gli aveva sagomato un corpo asciutto e agile, che ha avuto sino all’ultimo.

Tutti i fratelli avevano mannàtu a dire (fatto proposte di matrimonio), Cosimo, zio Vito, zio Alessandro e zio Domenico, meno zio Lorenzo, che aveva solo 15 anni ed era il piccolo di casa, ma di tutte le future nuore (zia Maria, zia Ciretta, zia Graziella) mia madre era quella poco incline a sopportare: era ribelle per natura, sincera sino all’estremo. Doveva avere un magnetismo strano se solo da lei “Diavolo”, il feroce lupo della masseria legato all’ombra di un grande, monumentale noce, si faceva avvicinare, governare e a volte accarezzare.

Per questo Ippazio Antonio le voleva bene come a una figlia: erano uguali.

Il conflitto tra Antonietta e zia Lucia (che voleva farsi suora ma che restò nubile per accudire la nonna fino alla fine che avvenne in un giorno di neve (3 gennaio 1979, “Addio a Lorenzo e a tutti…” le sue ultime parole) era quotidiano, continuo. Ogni spunto buono per far sprizzare scintille.

Mio padre andava a Taranto a fare la spesa, tornava e restituiva il resto. Un giorno se ne dimenticò, o se lo tenne. Zia Lucia se ne uscì graffiando con un antico proverbio: “A mercante ricco non si torna resto”.

Mia madre era una ragazza quieta, algida, andava a giornata a raccogliere ulive, era la più svelta, ma non si trattenne, la taranta la pizzicò, il sangue le bolliva dentro:

Come, tuo fratello ha ormai 30 anni e tutti i giorni vi porta la giornata a casa, vi dà tutto quello che guadagna e una volta che si tiene due soldi protestate pure?”.

Gli occhi chiari erano cupi di rabbia: tremava, balbettava.

Parlava come una moglie che bada a casa sua e ai figli suoi.

Se ne tornò furiosa a “La Redenta” e credo che s’interruppe il fidanzamento. Né suo padre Francesco (che morì nella primavera del 1952 due mesi dopo le sue nozze) né sua madre Francesca riuscirono a convincerla che, accompagnata col calesse dal fratello maggiore, zio Pantaleo (si chiamava come il padre di nonno Francesco, la moglie Luigia), che dalla prigionia in America le aveva portato in regalo un libro di chiesa, prima o poi doveva pur tornare.

Il fidanzamento comunque si era già interrotto quando Cosimo era partito per la guerra, da Barletta, settembre 1940.

Nell’attesa, con i compagni della fanteria, sotto la luna piena, andavano a rubare i riciòppi (racemi) lasciati dai vendemmiatori nelle vigne intorno alla città di Ettore Fieramosca.

Era dunque fine giugno 1950 e quel giorno afoso si erano alzati nel cuore della notte, mangiato la marènna (cicorie di campagna, fave nette, purea e pane fritto nell’olio d’oliva) che Cosimo ogni mattina preparava per tutti e avevano preso il primo treno dalla stazione di Taranto.

Della brigata col cuore colmo di speranza facevano parte: nonna Mariangela, zio Vito, zio Lorenzo e mio padre, che era uno sincero e nervoso: aveva fatto la guerra, chissà quante ne aveva viste in quei cinque anni che era mancato da casa e aveva dovuto bere il latte che non gli piaceva: era scampato ai massacri di Cefalonia, settembre 1943 e quando era tornato pesava 40 chili e la prima cosa che disse a sua madre fu:

Sai, mamma? Io alla guerra ho bevuto il latte…”.

Incredula lei aveva risposto:

Siii? Davvero? Tolto il mio quando nascesti non ne hai mai voluto una goccia…”.

Entrarono pudici e silenziosi nella chiesa del convento, adocchiarono un monaco corpulento inginocchiato vicino all’altare, col rosario fra le mani. Si avvicinarono discreti come fantasmi. Si girò: aveva agli occhi pazzi di sonno, anche quella mattina si era alzato presto per dire messa alle 5 del mattino alle bizzòche (bigotte) del paese. “Puttane in gioventù, bigotte in vecchiaia” (Stendhal).

I fratelli notarono un’ombra furbesca, quasi luciferina sprizzare nello sguardo. Si diceva che lo circondasse un’aura di petali di rose, a loro sembrò piuttosto che da qualche parte provenissero zaffate di zolfo.

Padre Pio, Fonte: pinomiscione.it

Padre Pio, Fonte: pinomiscione.it

Guardarono le grandi mani coperte da guanti di pesante lana marrone. Candele gialle di cera d’api ardevano all’altare facendo mancare l’aria, fiori appassiti col capo reclinato nei lunghi portafiori di vetro, i Santi osservavano dalle nicchie, curiosi di sapere la piega degli eventi.

Zio Vito non ha fatto la guerra soltanto perché quando nacque la madre (che era nata il 6 novembre 1893) mentì sull’anno (era nato a dicembre del 1922 e lo registrò a gennaio del 1923 scavalcando un anno, proprio per sottrarlo al fronte: forse la nonna aveva doti paranormali, che ha passato a me: come faceva a sapere che ci sarebbe stata la guerra nel 1940 venti anni prima?), un espediente che infatti gliela risparmiò.

Da ragazzo fu miracolato: un carro agricolo gli passò sulle gambe, ma si alzò senza manco un graffio. Cosimo l’ha raccontato con la stessa meraviglia tutta la vita. Lo vide coi suoi occhi e ha sempre ripetuto: “Fu un miracolo!”.

E’ sempre stato diplomatico, riflessivo, a differenza di Cosimo, istintivo. Poteva sposarsi per primo, ma lui era il secondo e rispettò il fratello maggiore: fu mio padre a cominciare i matrimoni dei fratelli Greco.

Mio padre era il grande di casa, guardò sua madre inginocchiata a distanza di qualche banco, a mani giunte, interpretò il suo consenso nello sguardo dove l’esile fiamma della speranza ardeva quieta.

Toccava a lui parlare:

Siamo venuti a chiedere la grazia per nostro padre, che è malato…”.

Un ufficiale medico, inglese, che stava di base a Taranto ed era rimasto dopo la guerra (credo avesse sposato una ragazza tarantina) e con cui i Greco erano in amicizia forte, aveva guardato le lastre e scosso il capo:

Se vostro padre ha questa malattia…”.

Voleva dire: gli resta poco da vivere.

Il frate cappuccino si girò e vide mio padre.

Non gli piacque per niente, chissà perché. Si diceva che leggesse nella mente e nel cuore degli altri. Quello di Cosimo era pulito, sincero, anche ingenuo. Forse voleva metterlo alla prova e voleva che si umiliasse, insistendo, diventando petulante. Aveva sbagliato indirizzo.

O forse Cosimo doveva fare paura. Era nero di sole e di rabbia, aveva le spalle larghe, i baffi saraceni che si era cresciuti per occultare la ferita del calcio di un cavallo, era tutto nervi e muscoli, e così è rimasto fino a 83 anni.

Non ha mai avuto paura di niente e di nessuno e di salute ne ha avuta, zappava la terra e sembrava mangiarla tanto era svelto. E’ stato alle cave, ha intrecciato le sedie di paglia (come sua madre).

Chissà che gli disse la mente, perché tenne fede alla sua fama di frate capriccioso e lo apostrofò acido:

E tu con quella faccia vieni a chiedere la grazia?”.

Fu come essere morsicati dalla fòrfaca (scolopendra): come Antonietta tempo prima, manco lui si trattenne:

Che, la faccia tua è migliore della mia?”.

Si studiarono qualche attimo in silenzio. Gli altri tacevano, imbarazzati, la nonna s’era fatta ancora più piccola nel suo vestito nero. Nella fresca penombra, avidi di dettagli, i Santi avevano gli occhi e le orecchie spalancate, mentre le candele stagliavano ombre sinistre sui muri umidi.

Poi il monaco si accorse che zio Lorenzo, che era un ragazzino e cresceva anche basso (aveva preso dalla nonna), aveva i calzoni corti, e allora si infuriò:

Fuori di qua… In chiesa non si entra con i calzoni corti…”.

La scolopendra morsicò di nuovo Cosimo:

Vaffanculo a te e alla tonaca che porti… Andiamocene… – disse alla madre e ai fratelli – siamo venuti qua con tanto amore e ci tratti come animali… Vaffanculo a te e a tutto il convento!”.

Uscirono sul sagrato, il sole era forte, le cicale stonavano.

Presero la via del ritorno. Sul treno nessuno più parlò.

La madre si chiuse in un silenzio di sale. Lo sguardo era perso fra gli ulivi e le vigne, i filari del tabacco, i fichi e il mare.

Aveva solo 57 anni, ma era invecchiata di altri 57.

L’ufficiale inglese conosceva un ospedale a Roma dove si curavano le brutte malattie.

Ne parlarono al nonno, che ci pensò su e poi con la voce triste rispose:

Figli miei, se è arrivata la mia ora, è inutile che giriamo e che spendiamo tutti i nostri risparmi… Ma se è per tenervi contenti, allora andiamo a Roma…”.

Mariangela sorrise, la speranza infiammò le sue guance: era la più piccola di cinque sorelle: Caterina, Chicca, Maria e Cristina, tutte abili a intrecciare le sedie di paglia, come il loro padre, Domenico Maria, che con una sedia in collo girava i paesi di terra e di mare e la loro madre Carmela.

I Greci non si arrendono mai, è il loro dna: sul calo di battaglia e nell’agorà quando si mettono a filosofare. Così una mattina di luglio tutta la famiglia lasciò di mietere il grano, di cogliere i fichi e di fare l’acinino al tendone (uva da tavola) e accompagnò al treno a Taranto Cosimo e Patintoni, che era alto e dimagriva a vista d’occhio e perciò sembrava ancora più alto.

Lo portò all’ospedale “Regina Elena”, lo sistemò nella stanza e poi si trovò da dormire in una pensione vicino al Verano.

Quando non stava col padre, girava per la città e comprava il tabacco che venditori improvvisati vendevano di contrabbando a ogni angolo, esponendolo sui marciapiedi, su fogli di giornale.

Io lo ricordo fumare le Nazionali alla cava alle “Matine”, fra gli ulivi quando si andava a fare la raccolta, con i compagni in piazza, ma quando il medico gli disse di smettere lo fece immediatamente.

Le cure del nonno furono costose, il soggiorno di Cosimo anche: 600mila lire, i risparmi d’una vita si volatilizzarono.

E dire che tutto era cominciato con un po’ di pioggia che il nonno si era presa addosso lavorando di piccone.

Una mattina i medici chiamarono da parte Cosimo e gli dissero che era meglio se tornavano a casa.

Mio padre non capì, lo portò alla Stazione Termini.

Il viaggio fu molto lungo, il nonno non disse una parola. Arrivarono a Taranto, scesero, i fratelli erano tutti lì: zia Lucia e Mariangela erano rimaste alla masseria con “Diavolo”, che sotto il noce dov’era legato fece un sacco di feste al padrone. Lo aveva allevato dicendo: “Crescerò un cane così feroce che non riconoscerà manco i padroni…”. Così fu. Solo Antonietta lo poteva accudire, ma ora era lontana e il lupo di razza era triste e nervoso.

Il nonno aveva un’aria allegra e anche un bel colorito. Nella masserie le voci correvano più veloci del vento: si parlò del miracolo, l’aveva fatto Padre Pio, un sant’uomo.
Ma era la miglioria della morte.

Si aggravò. L’ufficiale medico dovette usare parole forti per dire che si era alla fine. L’ultimo desiderio del nonno era di tornare a morire dov’era nato, nello stesso vecchio paese messapico, la grande casa sulla neviera, le volte a botte, le giummanèe (rispostigli), il grande camino col braccio per il pentolone, la pila di pietra leccese per l’olio, il sedile e la pila per lavare i panni di pietra viva.

Stava tutto il giorno a letto. Ormai parlava con un filo di voce.

Di Antonietta non si era saputo più nulla: non era più venuta alla “Bianca” né qualcuno di casa sua né della casa di Cosimo era andato a vederla a “La Redenta”.

Con le cugine, andava sempre a raccogliere ulive o a sarchiare grano o orzo e un giorno videro un campo di medde (nespole germaniche) mature.

Erano ragazze allegre, piene di vita e di salute: ebbero voglia di quel frutto selvatico dolcissimo, anche se ancora non erano sposate.

Un giorno tornando alla masseria entrarono nel campo per mangiarne qualcuna, non per rubare, solo che non videro il guardiano: che da dietro un ulivo borbottò qualcosa. Si misero a scappare, mia madre era la più spaventata, diceva: “Mamma mia! Mamma mia!”.

Mio padre non l’aveva più cercata, credo che nelle montagne di neve della Grecia, o forse a Joannina, avesse un’altra che l’aveva sfamato e nascosto in fuga da Cefalonia, quando i tedeschi con gli Stukas insanguinarono l’isola (9mila morti). Forse ce n’era ancora un’altra alle masserie quando la guerra finì, l’ho colto da qualche battuta sfuggita ai parenti, ma non ne sono sicuro.

Una mattina Ippazio Antonio chiamò Cosimo:

Non piangere, scemo… Io vorrei restare qua con voi, ma se lui mi vuole adesso che possiamo fare?”.

Poi non parlò più. Il figlio maggiore si nudacò (commosse).

Morì alle 4 del mattino del 28 settembre 1950, ma un’altra versione vuole che sia invece spirato alle 4 dopo mangiato, proprio mentre davanti alla sua casa di cocci e terra rossa passava la processione dei Santi Medici.

Era piovuto un poco, era ancora estate e in cielo apparvero due arcobaleni.

Gli stessi che si innalzarono da levante e da ponente, incrociandosi, quando morì mio padre il 17 aprile 2004.

Spero di andarmene anch’io col cielo colorato dall’iride. E’ un un segno, vuol dire che non hai mai fatto male a nessuno, che sei in pace con te stesso, gli altri, l’Universo e che di te si parlerà bene fino alla fine del tempo.

Notti dopo Cosimo sognò Ippazio Antonio, che gli disse:

Figlio mio, vai a trovarla e prenditela (sposala)… Sennò che fine farà quella santa creatura?”.

Per lui era come una figlia, le parlava a sussurri per non turbarla o spaventarla.

Si sposarono a Lucugnano agli inizi del 1952 (febbraio).

Ad aprile morì suo padre Francesco: era altissimo, come un corazziere e aveva gli occhi chiari. Mentre nonna Francesca se ne andò ad aprile 1970: era figlia di Ezechiele e Assunta.

Nel cortile dov’era nata, di fronte alla Cappella della Madonna Addolorata, c’è ancora la pila dove da ragazza faceva il bucato. Hanno cercato di rubarla, è spaccata in due.

Si, mio padre è un mito. Aveva un carisma molto forte e un sorriso pulito che avrebbe convinto chiunque. Morì alle 10 e 5 di sera (era il 17 aprile 2004) e lo tenemmo in casa tre giorni, contro tutte le leggi: noialtri Greci ce le facciamo da soli. Ricevemmo 500 telegrammi da tutto il mondo. Non mettemmo il brogliaccio per le firme, sennò ne avremmo raccolte a migliaia.

Mi misi vestito e cravatta e trasformai il suo funerale in uno spettacolo. Lessi una poesia che avevo scritto anni prima e che stava su un’antologia: “Ti farò un monumento padre”: la chiesa venne giù dagli applausi.

Il primo figlio del partigiano Cosimo si chiamò Ippazio Antonio, come il padre, ma visse solo 4 mesi: Cosimo diceva 8, ma all’anagrafe ho scoperto che visse di meno, dal settembre 1953 al gennaio 1954.

Un bambino figlio del cugino ‘Ntoni, Pascalinu, malato di nicatèdda (pertosse), entrò mentre mia madre gli stava cambiando i panni e gliel’attaccò.

Nessuno sa dov’è sepolto tranne me. Ogni tanto gli porto i fiori e ci parlo, indugio, non so andarmene, è più forte di me, è la voce del sangue, e poi come posso lasciare solo un bambino così piccolo? Con la pioggia, il vento forte, il freddo? Non c’è manco una foto. Io ne avevo una a culetto all’aria, la diedi alla mia prima fidanzatina, che la perse. E’ morta giovane anche lei.

Nostra madre morì in un giorno di sole, il primo maggio 1977, all’ospedale: io ero militare, ero venuto in licenza, la vidi, la abbracciai, piansi: lei era contenta: aveva pregato tanto per vedermi l’ultima volta. Da anima bella fu esaudita. Le compagne di stanza bisbigliarono qualcosa:

E’ questo suo figlio…”, e tacquero. Lei aveva parlato di me, era orgogliosa, mi aveva fatto bene, mi aveva comprato tanti libri: mai Antonietta mi disse di no una sola volta.

E’ un mito anche lei.

Dissi:

Mamma, mi sono comprato una camicia, ma ho sbagliato misura, è troppo grande…”.

Lei sorrise affaticata: guardai la vera al dito: era troppo grande tanto le sue bellissime mani erano smagrite.

Mò che torno a casa te la sistemo io… Voglio tornare a casa mia…”.

Mio padre mi scacciò e nel corridoio mi rimproverò:

Non devi farti vedere che piangi davanti a lei, sennò capisce che è grave…”.

Una volta al vecchio cimitero dissi:

Papà, dove sta mio fratello?”.

Lui guardò distratto verso a tramontana e indicò una piccola croce di ferro con un numero, il 7, credo:

Là… “, come se ricordare gli provocasse dolore.

Ma credo che sotto la croce numero 12 ci sia un altro fratellino nato morto, che non risulta all’anagrafe.

Infatti quando si arrabbiava con me, da vero greco che porta tutto in tragedia, Cosimo diceva:

Era meglio se fossi annegato come gli altri… “ (“altri”, plurale).

Poi il vecchio cimitero è stato chiuso e la sorte ha voluto che Antonio fosse sepolto alle spalle del padre Cosimo e della madre Antonietta, che sono uno di fronte all’altro.

Sto risparmiando per fare una cappella dove metterci tutti.

Da Antonietta la Sveva ho preso le viscere fredde, il disincanto, i nervi forti (che sono della sua famiglia); da Cosimo il macedone la resistenza al lavoro, la fame, il freddo, la sorte avversa, convinti che prima o poi riusciremo a soggiogarla, come fece, seppure per soli 33 anni, O Megalexandros.
Noi Greci siamo un po’ megalomani. Un po’ tanto…

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