Archeologia e Natura, un viaggio nel passato nello splendido paesaggio di Salve
L’associazione culturale Archès, da sempre impegnata nel far comprendere il valore racchiuso nel patrimonio archeologico del Salento, ha progettato ed organizzato – in collaborazione con Salogentis – un’escursione nel territorio di Salve, tra grotte preistoriche, monumenti megalitici funerari protostorici, antichi insediamenti umani e significative manifestazioni della civiltà contadina.
La proposta di Archès prevede un magnifico cammino nel tempo, oltre che nello spazio, alla riscoperta di luoghi magici che celano scorci incantati, tesori di inestimabile valore sotto il profilo storico ed archeologico, che le nostre esperte guide vi sveleranno con passione e competenza, suscitandovi ad ogni tappa indelebili emozioni.
Il nostro viaggio – della durata di circa tre ore – ha inizio dalla chiesa di Pescoluse, di moderna costruzione, e si snoda in direzione di un monumento megalitico di particolare importanza per dimensioni e forma: si tratta del dolmen Argentina – Graziadei, ubicato nei pressi degli stabilimenti balneari “Le cinque vele” e “Le Maldive”, sopravvissuto per puro caso all’espansione urbanistica della Marina, celebre in tutto il mondo per le acque limpide e per la sabbia dorata, paragonabile a quella delle più famose isole dell’Oceano Indiano. Il mare, che oggi attrae il turismo balneare, nell’antichità ha favorito il popolamento umano di questo lembo di penisola. E non è un caso che il monumento funerario sia stato eretto, circa 3500 anni fa, a pochi passi dalla linea di costa, al confluire di due canaloni un tempo ricchi di acqua sorgiva e pluviale. Il dolmen, come detto, presenta alcune peculiarità che lo distinguono da altri monumenti coevi: ma non anticipiamo nulla, perché sarà la nostra guida a svelarvi le particolarità di questa struttura megalitica.
Lasciata alle spalle la frenesia del turismo di massa, si prosegue con mezzi propri nell’entroterra di Salve, e più precisamente nelle località Macchie Don Cesare e Montani dove, in un paesaggio mozzafiato, sono ancora visibili le vestigia di alcuni tumuli funerari risalenti a circa 4500 anni fa, quando in questo luogo magico gli antichi abitanti del luogo si recavano per dare l’ultimo saluto ai propri cari. Ma l’escursione non è solo cultura; anche l’occhio vuole la sua parte e basta voltare lo sguardo verso sud per scorgere, al di là dei ruderi dell’apiario di Valentini e della Masseria Don Cesare, i promontori di San Gregorio e di Santa Maria di Leuca, dove si può osservare l’erto profilo del grande faro, accarezzato dal vento di Scirocco ed illuminato dagli ultimi raggi di sole della giornata.
L’esperta guida, profonda conoscitrice del territorio, ci fa tornare indietro nei millenni, quando viveva una tribù che aveva l’usanza di deporre i defunti all’interno di una cassa delimitata da lastre di pietra o di cremare i corpi in una struttura di combustione, i cui resti poi venivano raccolti e conservati all’interno di piccoli vasi. Entrambe le tipologie di rito funerario sono attestate all’interno della medesima struttura megalitica, e ciò è la dimostrazione di come 4500 anni fa convivevano differenti tipologie funerarie.
Poche centinaia di metri di strada rurale separano l’area a tumuli di località Montani con l’omonima Grotta, che ha custodito per decine di millenni tracce del passaggio e della frequentazione dell’Uomo di Neandertal. Si tratta del primo ominide che fissò nel Salento i suoi campi base, utilizzando solitamente grandi cavità naturali come ripari e dedicandosi a tempo pieno all’attività di caccia nelle ampie foreste alternate a macchia e prateria, dove non era difficile imbattersi in elefanti, rinoceronti, cavalli, cervidi, orsi, cinghiali, iene ed ippopotami. All’interno della cavità, a seguito di uno scavo archeologico svolto una quarantina di anni fa, sono stati recuperati più di 4000 strumenti in pietra, utilizzati dal nostro gruppo di Neanderthal per svolgere le proprie attività quotidiane.
Di fronte all’apertura della cavità di Grotta Montani, il gruppo umano moderno può osservare una maestosa “casa di pietra”, localmente conosciuta come pajara, ossia un riparo temporaneo utilizzato dai contadini e dai pastori per il ricovero di attrezzi, animali e per ripararsi dal forte caldo estivo che rendeva difficile il lavoro nei campi nelle ore centrali della giornata. Annesso al monumento della civiltà contadina, un piccolo forno ricorda l’importanza del fico nella dieta dei nostri antenati. Prelibatezza apprezzata anche dalla comitiva, che effettua una sosta sotto le fronde di un albero di fico posto lungo il vialetto di accesso al fondo in cui si apre la grotta appena visitata.
Il gruppo, dopo essersi rifocillato, prosegue il suo viaggio nella storia più remota dirigendosi circa un chilometro più a nord, in località Macchie Don Cesare. Qui avrà la possibilità di osservare da vicino due cavità naturali. La prima di queste – denominata Febbraro dal nome del proprietario del fondo – presenta al suo interno segni evidenti e tangibili dell’innalzamento del livello del mare sino alla sua quota attuale (72 metri s.l.m.), documentato da un lembo di spiaggia tirreniana (deposito concrezionato di origine marina), con conchiglie fossili. L’azione meccanica del mare, inoltre, è testimoniata dalla presenza di un solco di battente alla base delle pareti, caratterizzate anche da fori di molluschi bivalvi (litofagi).
Davanti all’imboccatura della cavità, fa della mostra di sé Torre Pali, costruita nel 1563 su di uno scoglio isolato a circa 20 metri dalla riva. La sua funzione preminente era di difesa dell’entroterra salvese dalle scorrerie dei pirati, che infestavano i nostri mari portando sventure e calamità alla povera gente del posto.
L’escursione proposta da Archès si pone come obiettivo quello di far scoprire al visitatore questi luoghi celati, sconosciuti ai più, che proprio per la loro misteriosità sono stati oggetto di culti primordiali e misteriosi. Non si possono spiegare, però, i due dipinti di probabile fattura neolitica rinvenuti su una parete laterale di Grotta Marzo, che si apre sul medesimo costone di roccia di Grotta Febbraro, da cui dista circa un centinaio di metri.
Si tratta di due figure realizzate con dell’ocra rossa, ben conservate dalla mano distruttrice dell’uomo e dagli agenti atmosferici, ma molto difficili da interpretare anche se trovano uno stretto confronto con quelli ben più celebri della Grotta dei Cervi di Porto Badisco, vicino Otranto. La fantasia di ogni singolo visitatore trova, in questo momento dell’escursione, terreno fertile per esaminare l’arcana mente dell’ignoto “artista” neolitico.
Si riprende, a questo punto, il viaggio in direzione di località Fano, importante per la presenza dei due canaloni naturali che l’attraversano, ricchi di acqua sorgiva che ha attratto i gruppi umani a partire dalle prime fasi di frequentazione del territorio.
Giunti ai margini settentrionali di un piccolo pianoro, denominato La Chiusa, ci si addentra in fondo ad un stradone realizzato al di sopra del circuito murario di una città messapica, fiorita nella prima metà del I millennio a.C. e abbandonata circa 2500 anni fa, forse a seguito di una battaglia che ha visto scontrarsi i nostri Messapi con i Magnogreci di Taranto.
Della cittadella fortificata non si conserva quasi nulla, neppure il nome originario, ma solo alcuni blocchi di mura e la particolare conformazione ellissoidale ben visibile dalle fotografie aree. Il paesaggio mozzafiato, che le fa da contorno, rende affascinante e magica anche quest’ultima tappa. Poco distante dalle antiche vestigia de La Chiusa, si erge fiera e maestosa la cinquecentesca Masseria Fano, con la torre di difesa che conserva sulla facciata lo stemma della famiglia Gonzaga e la corte esterna un tempo scenario di fatica, sudore ma anche momenti di convivio familiare, ora muta, deserta ed abbandonata ad un triste destino.
La visita termina, dopo circa tre ore, sul fondo del Canalone del Fano, raggiungibile dall’omonima Masseria a piedi dopo aver percorso un ripido e stretto tratturo. Sono numerose le grotte, celle naturali che si aprono sul suo costone orientale e una di queste presenta una particolarità che la distingue dalle altre attigue: è stata destinata da un gruppo di monaci italo – greci, stabilitosi circa un millennio fa in questo luogo, alla funzione liturgica. Le sue pareti, infatti, un tempo erano tutte affrescate, ma dell’originario ciclo pittorico rimane solo un lembo di affresco con l’immagine di alcuni santi ed un’iscrizione dipinta in lettere greche. La cavità, sobria e di ridotte dimensioni, si caratterizza per la presenza di un’abside scavato nella roccia (orientato ad est) e di un sedile gradino che corre lungo le pareti laterali, su cui i monaci si sedevano per partecipare alla liturgia religiosa.
Ormai il sole ha varcato l’orizzonte dell’aspra Serra di Spigolizzi e man mano la luce sta lasciando il posto alle tenebre. Lentamente la comitiva risale l’antico sentiero e mestamente ci si appresta a salutarsi e a darsi appuntamento ad un’altra escursione organizzata da Archès oppure, perché no, all’anno venturo, con un percorso ancora più affascinante e intriso di storia e mistero nel territorio di Salve.
Associazione Archès