Archeologia a Salve, resoconto sulla visita guidata dell’Associazione Archès
Si è svolta nel corso dell’assolata mattinata di domenica 19 febbraio l’escursione archeologica nel territorio di Salve, organizzata dall’associazione culturale Archès, in collaborazione con l’associazione di fotografi Photowalking Salento.
Il nostro viaggio – durato circa tre ore e mezzo – ha avuto inizio da piazza Dante, a Salve. Dopo aver percorso circa 5 km con una lunga colonna di auto a seguito delle tre guide (Marco Cavalera, Nicola Febbraro e Sandra Sammali) si è giunti nella misteriosa località Fano, che si caratterizza per la presenza di due canaloni naturali che l’attraversano ad est e ad ovest, ricchi di acqua sorgiva che ha attratto i gruppi umani a partire dalle prime fasi di frequentazione del territorio.
Lasciate le macchine ai margini settentrionali di un piccolo pianoro, denominato La Chiusa, ci si è addentrati in fondo ad un stradone realizzato al di sopra del circuito murario di una città messapica, fiorita agli arbori del I millennio a.C. e abbandonata circa 2500 anni fa, forse a seguito di una battaglia che ha visto scontrarsi i nostri Messapi con i Magnogreci di Taranto.
Della cittadella fortificata non si conserva quasi nulla, neppure il nome originario. Dalle foto aeree del Dopoguerra è stato possibile identificare la particolare conformazione ellissoidale dell’insediamento. Alcuni megaliti ci suggeriscono che qui, in un passato remoto, un gruppo di uomini e di donne viveva in un villaggio di capanne, coltivava la terra, portava in pascolo le greggi e scambiava prodotti e conoscenze con commercianti provenienti dall’altra sponda dell’Adriatico i quali – probabilmente – rimanevano senza fiato nell’osservare il paesaggio mozzafiato che fa da contorno e rende magico questo luogo.
Poco distante dalle antiche vestigia de La Chiusa, si erge fiera e maestosa la cinquecentesca Masseria Fano, con la torre di difesa eretta da Andrea Gonzaga negli anni ’70 del XVI secolo, che conserva sulla facciata lo stemma della famiglia Winspeare e la corte esterna un tempo scenario di fatica, sudore ma anche momenti di convivio familiare, ora muta, deserta ed abbandonata ad un triste destino. Si prosegue sul fondo del Canalone del Fano, raggiungibile dall’omonima Masseria a piedi dopo aver percorso un ripido e stretto tratturo. Sono numerose le grotticelle naturali che si aprono sul suo costone orientale e una di queste presenta una particolarità che la distingue dalle altre attigue: è stata destinata da un gruppo di monaci italo – greci, stabilitosi circa un millennio fa in questo luogo, alla funzione liturgica. Le sue pareti, infatti, un tempo erano tutte affrescate, ma dell’originario ciclo pittorico rimane solo un lembo di affresco con l’immagine di alcuni santi ed un’iscrizione dipinta in lettere greche, che identifica San Pantaleone. La cavità, sobria e di ridotte dimensioni, si caratterizza per la presenza di un’abside scavato nella roccia (orientato ad est) e di un sedile gradino che corre lungo le pareti laterali del primo ambiente, su cui i monaci si sedevano per partecipare alla liturgia religiosa. Un’iconostasi di pietra, con due finestrelle, divide la cella dall’abside.
Il folto gruppo ha proseguito il suo viaggio nella storia più remota, dirigendosi circa tre chilometri più ad ovest, in località Macchie Don Cesare. Qui si è avuta la possibilità di osservare da vicino due cavità naturali. La prima – denominata Febbraro dal nome del proprietario del fondo – presenta al suo interno segni evidenti e tangibili dell’innalzamento del livello del mare sino alla sua quota attuale (72 metri s.l.m.), documentato da un lembo di spiaggia tirreniana (deposito concrezionato di origine marina), con conchiglie fossili. L’azione meccanica del mare, inoltre, è testimoniata dalla presenza di un solco di battente alla base delle pareti, caratterizzate anche da fori di molluschi bivalvi (detti litofagi).
Davanti all’imboccatura della cavità fa della mostra di sé Torre Pali, costruita nel 1563 su di uno scoglio isolato a circa 20 metri dalla riva. La sua funzione preminente era di difesa dell’entroterra salvese dalle scorrerie dei pirati, che infestavano i nostri mari portando sventure e calamità alla povera gente del posto.
L’escursione proposta da Archès si pone come obiettivo quello di far scoprire al visitatore questi luoghi celati, sconosciuti ai più, che proprio per la loro misteriosità sono stati oggetto di culti primordiali e misteriosi. Non si possono spiegare, però, i due dipinti di probabile fattura neolitica rinvenuti su una parete laterale di Grotta Marzo, che si apre sul medesimo costone di roccia di Grotta Febbraro, da cui dista circa un centinaio di metri.
Si tratta di due figure realizzate con dell’ocra rossa, ben conservate dalla mano distruttrice dell’uomo e dagli agenti atmosferici, ma molto difficili da interpretare anche se trovano uno stretto confronto con quelli ben più celebri della Grotta dei Cervi di Porto Badisco, vicino Otranto. La fantasia di ogni singolo visitatore ha trovato, in questo momento dell’escursione, terreno fertile per esaminare l’arcana mente dell’ignoto “artista” neolitico.
Poche centinaia di metri di strada verso sud ed ecco località Montani con l’omonima Grotta, che ha custodito per decine di millenni tracce del passaggio e della frequentazione dell’Uomo di Neandertal. Si tratta del primo ominide che fissò nel Salento i suoi campi base, utilizzando solitamente grandi cavità naturali come ripari e dedicandosi a tempo pieno all’attività di caccia nelle ampie foreste alternate a macchia e prateria, dove non era difficile imbattersi in elefanti, rinoceronti, cavalli, cervidi, orsi, cinghiali, iene ed ippopotami. All’interno della cavità, a seguito di uno scavo archeologico svolto una quarantina di anni fa (di cui si notano chiaramente sulle pareti i segni della quadrettatura), sono stati recuperati più di 4000 strumenti in pietra, utilizzati dal nostro gruppo di Neanderthal per svolgere le proprie attività quotidiane.
Di fronte all’apertura della cavità di Grotta Montani, il gruppo umano moderno ha potuto osservare una maestosa “casa di pietra”, localmente conosciuta come pajara, ossia un riparo temporaneo utilizzato dai contadini e dai pastori per il ricovero di attrezzi, animali e per trovare sollievo dal forte caldo estivo che rendeva difficile il lavoro nei campi nelle ore centrali della giornata. Annesso al monumento della civiltà contadina, un piccolo forno ricorda l’importanza del fico nella dieta dei nostri antenati.
Lasciata alle spalle la grotta dei Neanderthaliani, si è proseguito per circa 500 metri in località Macchie Don Cesare dove, in un paesaggio mozzafiato, sono ancora visibili le vestigia di alcuni tumuli funerari risalenti a circa 4500 anni fa, quando in questo luogo magico gli antichi abitanti del luogo si recavano per dare l’ultimo saluto ai propri cari. Ma l’escursione non è solo cultura; anche l’occhio vuole la sua parte e basta voltare lo sguardo verso sud per scorgere, al di là dei ruderi dell’apiario di Valentini e della Masseria Don Cesare, i promontori di Torre San Gregorio e di Santa Maria di Leuca, dove si può osservare l’erto profilo del grande faro, accarezzato dal vento di Scirocco ed illuminato dai più alti raggi di sole della giornata.
L’esperta guida, profonda conoscitrice del territorio, ci ha fatto tornare indietro nei millenni, quando viveva una tribù che aveva l’usanza di deporre i defunti all’interno di una cassa delimitata da lastre di pietra o di cremare i corpi in una struttura di combustione, i cui resti poi venivano raccolti e conservati all’interno di piccoli vasi. Entrambe le tipologie di rito funerario sono attestate all’interno della medesima struttura megalitica, e ciò è la dimostrazione di come 4500 anni fa convivevano differenti tipologie funerarie.
Nonostante fossimo giunti al termine del viaggio, la comitiva non era per niente affaticata da cotanto bel vedere, e con il gruppo ancora al gran completo ci si è diretti verso un monumento megalitico di particolare importanza per dimensioni e forma: il dolmen Argentina – Graziadei, ubicato nei pressi degli stabilimenti balneari “Le cinque vele” e “Le Maldive”, sopravvissuto per puro caso all’espansione urbanistica della Marina, celebre in tutto il mondo per le acque limpide e per la sabbia dorata, paragonabile a quella delle più famose isole dell’Oceano Indiano.
Il mare, che oggi attrae il turismo balneare, nell’antichità ha favorito il popolamento umano di questo lembo di penisola. E non è un caso che il monumento funerario sia stato eretto, circa 3500 anni fa, a pochi passi dalla linea di costa, al confluire di due canaloni un tempo ricchi di acqua sorgiva e pluviale. Il dolmen presenta alcune peculiarità che lo distinguono da altri monumenti coevi. Ciò che rende particolare questo monumento megalitico è la sua struttura ipogeica (scavata nel banco di roccia, dove è stata ricavata, nel fondo, la fossa funeraria) e apogeica (costituita da grandi lastre). Peculiare è, tra l’altro, anche la sua apertura rivolta ad ovest.
Il sole risplendeva sul mare in riposo, dopo tanti giorni di tempesta, e lentamente la comitiva risaliva l’antico sentiero. Mestamente ci si appresta a salutarsi e a darsi appuntamento ad un’altra escursione organizzata da Archès, nell’affascinante territorio di Salve, intriso di storia e mistero.
Associazione Archès