Home » Aneddoti e Curiosità » Minerva, Lugh, Batis…il capo di Leuca, una bagarre di divinità

Minerva, Lugh, Batis…il capo di Leuca, una bagarre di divinità

Il Capo di Leuca, una bagarre di culture, un melting-pot di nazionalità, usi e costumi, crocevia di diverse popolazioni. Un lembo di terra che è stato per secoli una spugna di tradizioni e credi differenti. Designato dalla leggenda o dalla storia come focolaio primordiale di quello che sarebbe ben presto diventato un vero e proprio incendio che,  divampato in gran parte dell’Occidente, portò ad una traslitterazione di divinità e creature mistiche, di vario genere, in una schiera di santi e beati guidati da un nuovo e unico Dio, quello Cristiano.

La presenza di molteplici culture nel Capo ha intriso ogni angolo di questa magnifica terra con un’essenza pagana, un profumo persistente difficile da dissipare. Il nascente credo, proclamato religione di Stato con gli editti di Teodosio, nel 380, vedrebbe quindi nel tacco d’Italia la costruzione delle prime chiese a seguito della conversioni di numerose masse di “gentili” ad opera dai Santi Pietro e Paolo: il pescatore di uomini e l’apostolo delle genti. Questi giunsero separatamente nel Salento ma animati da un target comune: evangelizzare. I frutti di questo sacrificio, che costerà loro il martirio a Roma, non tardarono ad arrivare. Su punta Meliso venne eretto un santuario dedicato alla Madonna Annunziata, distrutto e riedificato molteplici volte nel corso dei secoli e designato come meta di pellegrinaggio sin dal 342 da  Papa Giulio I. Il pellegrinaggio venne poi ribadito da diversi pontefici, come Innocenzo XI e Benedetto XIII, conducendo ogni anno nel Salento migliaia di fedeli.  Un pellegrinaggio che per i salentini continua anche da morti, ritornando nella loro terra con il cappello in testa, come recitano i versi finali di Finibusterrae di Vittorio Bodini.

Vorrei essere fieno sul finire del giorno
portato alla deriva
fra campi di tabacco e ulivi, su un carro
che arriva in un paese dopo il tramonto
in un’aria di gomma scura.
Angeli pterodattili sorvolano
quello stretto cunicolo in cui il giorno
vacilla: è un’ora
che è peggio solo morire, e sola luce
è accesa in piazza una sala da barba.
Il fanale d’un camion,
scopa d’apocalisse, va scoprendo
crolli di donne in fuga
nel vano delle porte e tornerà
il bianco per un attimo a brillare
della calce, regina arsa e concreta
in questi umili luoghi dove termini, Italia, in poca rissa
d’acque ai piedi d’un faro.
È qui che i salentini dopo morti
fanno ritorno
col cappello in testa.

E’ proprio dal promontorio Japigio che possiamo iniziare il nostro “appello” di divinità. Prima fra tutte è Minerva, colei che donò l’ulivo agli uomini e che il Salento ha coltivato per secoli. Il suo tempio si ergeva probabilmente al posto dell’attuale Santuario. Recenti indagini archeologiche collocherebbero però il Tempio di Minerva nella vicina Castro, l’antica Castrum Minervae, eleggendo di fatto il custode dell’estrema propaggine Salentina il dio messapico Batis Jupiter (o Baath), protettore dei naviganti, venerato all’interno della grotta Porcinara, su punta Ristola. Al suo interno sono tutt’ora presenti diverse preghiere, dediche e ringraziamenti in lingua messapica e latina.

De Finibus Terrae

Tra le acque che separano questi due “pizzi” nuotava un tempo una bella sirena bianca, Leucasia, che con il suo canto sensuale e ipnotico attirava a se gli uomini dell’antica Messapia. Nessuno era in grado di resistere al suo richiamo. Nessuno, tranne un giovane pastorello, un certo Meliso. Costui possedeva l’arma più potente che un uomo possa mai desiderare, l’amore per una donna, la sua Aristula. L’orgoglio di Leucasia non poteva permettere che un uomo comune potesse avere la meglio sul suo potere. Meliso e Aristula non potevano restare impuniti. Impiegò tutte le sue forze per scatenare una terribile tempesta che trascino in mare i giovani amanti che si recarono sulla costa per avere un po’ di intimità. Le onde li separono, scagliandoli continuamente contro gli scogli fino alla morte. Non soddisfatta, Leucasia pietrifico i corpi di entrambe, ponendoli a debita distanza affinché potessero protendersi in un vano e infinito tentativo di sfiorarsi reciprocamente. La scarica di adrenalina passò e la sirena cominciò ad avvertire un duro senso di colpa per ciò che aveva fatto. Decise di punirsi, pietrificandosi a sua volta, al fine di espiare le sue atroci colpe. Il suo corpo diede vita a Leuca.

Leucasia non è stata la sola a mettere un po’ di pepe nelle contrade salentine. Oltre a lei,  strani omuncoli che nessuno può vedere, che trovano sollazzo nel provocare disagi e marachelle di vario genere si sono divertiti ai danni dei poveri contadini: sono i folletti. Conosciuti meglio come scazzamurrieddhi, municeddhri o laurieddhri, questi piccoli gnomi dal corpo peloso e con il berretto sul capo sarebbero le rivisitazioni nostrane degli incubi greci, piccoli demoni il cui passatempo preferito era quello di sostare sul torace di un uomo durante il sonno, rendendogli impossibile il riposo e difficoltoso il respiro. Erano anche protagonisti di possessioni, soprattutto di donne, e conoscitori dei posti in cui erano nascoste le acchiature. Potremmo definirli delle piccole mappe del tesoro ambulanti. Erano inoltre abili parrucchieri, dato che si divertivano a intrecciare il crine dei cavalli ogni notte. L’unico modo per tenerli a bada era privarli del proprio berretto.

Con questo elenco di creature e divinità pagane da debellare, i santi Pietro e Paolo continuarono la loro opera di evangelizzazione toccando diversi centri, al  fine di mettere un segno di spunta a tutti i nomi presenti nella lista. Si recarono a Galatina, Otranto, Giuliano di Lecce dove sorsero chiese a loro intitolate. A Giuliano un’antica chiesa medievale, dedicata al primo tra gli apostoli, ricorda il suo passaggio a pochi passi dal luogo in cui, tradizione vuole, abbia riportato alla vita una persona defunta.

La chiesa di San Pietro

Queste zone sono costellate da numerose cripte. Rifugi dei monaci basiliani che qui trovarono riparo dalla lotta iconoclasta perseguita dall’imperatore Leone III Isaurico. Le abili mani di questi grandi artisti affrescarono con immagini di Santi decine di cavità nel sottosuolo. Queste figure di uomini e donne nimbati attendono li, silenti, in luoghi scavati all’occorrenza o precedentemente utilizzati da altre popoli e culture. Una serie infinita di croci esorcizza questi antri, quasi come a voler ribadire con forza la loro rinascita a incubatori per le nuove comunità cristiane. Croci che adornano le facce squadrate dei menhir, antichi monoliti legati a culti non ancora ben definiti e risalenti alla preistoria, spesso riutilizzati come tele per icone sacre. Ne è un esempio il magnifico monolite affrescato e nascosto dietro l’altare della chiesa della Madonna di Costantinopoli a Morciano di Leuca, o la bellissima immagine della Madonna della Coltura a Parabita. La figura del monolite, oltre a quella del Menhir, che alcuni identificano come un enorme gnomone per lo studio dei fenomeni astronomici, altri come indicatore della presenza di centri o arterie viarie importanti, venne utilizzata per perpetuare numerosi altri culti, tra cui quello di Priapo. Un dio dalla scheda anagrafica molto incerta, probabile figlio di Zeus e Afrodite, che Era, consorte di Zeus rese deforme, o meglio particolarmente “dotato”, nelle parti virili. I monoliti ricordavano la sua virilità, invocata a protezione dei campi, dei raccolti, di cui venne eletto come divinità patrona. Queste colonne litiche ora adornano non poche contrade delimitando l’ingresso in un podere.

Monumenti Litici a Priapo

In qualsiasi direzione voltiamo lo sguardo dunque, sembra che non possiamo fare a meno di essere perseguitati dal paganesimo. Nel Medioevo L’inquisizione trovò un giusto rimedio per debellarlo alla radice: il fuoco. Ottima soluzione, lascia poche tracce, disinfetta e elimina definitivamente ogni barlume del male insito sulla terra. Perfetto! Se non fosse per un unico problema: anche l’aspetto di purificazione del fuoco è legato a riti pagani. Se pur con un’accezione differente, le numerose focare che da sempre si accendono in svariati periodi dell’anno sono una manifestazione della potenza purificatrice di un dio celtico, Lugh, rimpiazzato dalla tradizione Cristiana, insieme al suoi colleghi Fauno e Pan, da Sant’Antonio Abate, protettore degli animali. Lugh era il dio della luce solare che regnava sulla terra per sei mesi l’anno, sostituendosi a Morrigan, regina dei defunti, che governava il secondo semestre. Il passaggio di potere avveniva con non pochi sconvolgimenti. Il regno dei morti si mescolava con quello dei vivi. Lugh guidava per una notte i defunti nella direzione opposta, conducendoli tra i viventi. Questi ultimi attendevano speranzosi la possibilità di poter rivedere i loro cari se pur logicamente terrorizzati da quella che divenne poi conosciuta come la notte di Halloween. Il giorno seguente l’equilibrio sarebbe stato ristabilito, Lugh avrebbe guidato le anime dei defunti seguendo il normale tragitto del sole, affinchè abbandonassero il mondo della luce per ritornare nell’Hell. Il fuoco dunque serve ad allontanare questi spiriti e a tenere distinti i due mondi. Di questo centrifugato di realtà nel Salento rimangono ancora vive alcune usanze, soprattutto tra i più anziani. Una tra tutte è quella di lasciare la tavola apparecchiata dopo la cena, possibilmente con sopra ancora gli avanzi di quanto si è consumato. Si ritiene infatti che i propri famigliari defunti ritornino dall’oltretomba per poter banchettare ancora una volta nella propria casa, vicino alle persone care.

L’appello alle divinità sarebbe ancora molto lungo ma credo di aver reso l’idea.

Marco Piccinni


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *