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Fernando Rausa

Riscoperto da qualche anno,  Fernando Rausa (1926-1977) è poeta dialettale che si nutre di quei valori universali che hanno radici forti nella sua  terra amara e desolata (come per il titolo di una sua raccolta: “Terra mara e nicchiarica”), amata con l’amore e con la rabbia, con l’entusiasmo e il disinganno, che nel poeta fanno tutt’uno in un canto vibrante appassionato lirico. Quei valori universali danno consistenza alla sua poesia accorata e sincera, spontanea ma non bozzettistica, che noi leggiamo oggi in due raccolte di versi pubblicate per il tramite del Comune di Poggiardo, dal figlio di Fernando, Paolo, insegnante, scrittore nonché raffinatissimo e versatile operatore culturale che vive in provincia di Milano.

Come tributo d’affetto e filiale devozione nei confronti di quel padre forse troppo presto perduto, egli ha curato entrambe le antologie di Fernando Rausa. La prima, “Terra mara e nicchiarica”, pubblicata con Manni nel 2006, prende il titolo a prestito dal primo verso della lirica “L’oru de lu sud” e  vanta una prestigiosa prefazione di Donato Valli,  mentre sulla copertina campeggia un’opera di Franco Gelli, “Materiali salentini”. “Dedico questo libro a tutti coloro che soffrono l’inumano e discriminante concetto sociale dell’uomo ‘caino’” è scritto sulla prima pagina del libro.  Apprendiamo da Paolo Rausa, nella “Nota del curatore”, che  Fernando Rausa nasce a Poggiardo il 3 gennaio del 1926 e qui vive, salvo una breve parentesi come emigrante in Argentina dal 1950 al 1951. Di  famiglia operaia, ultimo di cinque figli, non riesce a studiare ed è poeta autodidatta. Trova però il modo di forgiare i propri strumenti espressivi in occasioni conviviali quali feste famigliari, matrimoni, battesimi, nei quali improvvisa molti brindisi con profusione di  facili rime. Salaci battute e motti di arguzia offrono il destro al poeta in erba per creare i primi componimenti conditi da buona dose di ironia e divertimento.  Ma poi si rivolge a temi più seri ed impegnati ed escono le raccolte “Poggiardo mia” e “L’occhi ‘ntra mente” nel 1969, poi “Fiuri… e culuri”nel 1972 e infine “Guerra de pace” nel 1976. Scrive anche un romanzo d’amore, tuttora inedito. Muore, come già scritto, nel 1977. La seconda raccolta pubblicata dal figlio Paolo è “L’Umbra de la sira”, per le Edizioni Atena nel 2009. In copertina, una bellissima opera di Antonio Chiarello, “Lo spazio e il tempo”. Questo libro, sempre patrocinato dal Comune di Poggiardo, reca una Prefazione di Rita Pizzoleo “L’ombra della sera. Un uomo diventato Poeta” , una Nota del curatore, “Dal microcosmo del paese natale alla comprensione del destino umano” ed inoltre,  a margine della silloge, delle utilissime “Annotazioni” di Rita Pizzoleo che, come la traduzione in lingua italiana in calce alle poesie, aiutano la comprensione dei testi ma permettono soprattutto una maggiore fruizione degli stessi ( e in questo, avrà avuto la sua parte il fatto che lo stesso curatore Paolo sia residente da decenni in Lombardia).
Poesia popolare, quella di Fernando Rausa, che nasce da un profondo sentimento proprio di una voce dialettale salentina quasi sconosciuta quando l’autore era ancora in vita. “Una voce fuori dal coro” è stato definito il poeta da Donato Valli il quale, nella dotta prefazione alla prima raccolta, spiega come il Rausa sia un caso pressoché isolato nell’ambito della poesia dialettale salentina, perché non del tutto rientrante nel filone della cosiddetta poesia popolare ma nemmeno in quello della poesia d’arte. Egli affida il proprio verseggiare ad uno spontaneismo che, se da un lato tradisce la mancanza di una solida formazione culturale, d’altro canto rivela un animo indomito, poco o per nulla inscrivibile dentro paludati canoni.  E però  questa sua non appartenenza diventa appartenenza, paradossalmente: appartenenza ad un “piccolo mondo antico”, ad una civiltà oggi non più esistente,  che è stata per lui apprendistato umano ancor prima che letterario e  lirico. In Rausa l’ispirazione è tutto,  ed essa,  come un fiume tracimante, sovrasta ogni orpello retorico tanto caro ai cosiddetti “poeti laureati”. Non v’è, in questo poeta appartato e solitario, e non vi potrebbe essere, osservanza delle regole che sovrintendono la versificazione classica, in primis la metrica. I suoi sono versi liberi, anarchici come la sua anima indipendente. C’è in lui una meditazione sofferta della precarietà della vita umana, compartecipazione solidale coi propri simili che si trovano in condizioni di sofferenza, orgogliosa rivendicazione identitaria,  con riferimento al proprio amato “borgo natìo”, eppure nessuna remora, alcuna censura nel condannare fatti, persone, atteggiamenti, rientranti in un sistema di malaffare e disonestà che egli evidentemente aborriva. Gli altri temi trattati nel suo canzoniere sono: la riflessione amara sulla fugacità della giovinezza,  l’irritazione per le ingiustizie perpetrate dal più forte a danno del più debole, per l’emigrazione cui sono costretti tanti giovani del sud arretrato e sottosviluppato,  per i soprusi e le malversazioni, in una riflessione poetica che, dal paesino avito si allarga alla nazione intera, sicché  il microcosmo in cui l’autore vive e scrive da provinciale diviene universale. Egli fa rivivere Poggiardo, come scrive Rita Pizzoleo, “attraverso tratti, colori, profumi, voci che, in un tutt’uno armonicamente composto, stimolano i sensi e toccano le corde del cuore”. Un pessimismo velato, più che altro una vena malinconica, contraddistingue magna pars della sua produzione. Vi è nei suoi brani un forte realismo,  accentuato dall’utilizzo della lingua dialettale, aspra come la macchia salentina e dura come pietra di monte,  una attenzione per la sostanza dei contenuti che la sua poesia vuol veicolare con poca attenzione alla forma, sicché la mediazione poetica è a volte assente nelle sue espressioni, a vantaggio di una nuda e cruda esposizione dei propri messaggi.  Una testimonianza di fede, quella di Rausa, per tornare ancora all’interpretazione critica di Valli. Gli altri temi presenti sono: l’amore per la propria donna, la centralità della famiglia, il rispetto per il prossimo, in particolare per i più umili e bisognosi, l’importanza dell’amicizia, l’amore per la libertà, per la verità, per  la pulizia e la trasparenza nei rapporti interpersonali, secondo l’insegnamento evangelico di cui egli si fa latore in un afflato ecumenico che si avverte vibrante in alcune poesie.  Poesie che trovano humus nella saggezza popolare dalla quale egli attinge a piene mani, non solo l’idioma, ma direi proprio l’edificazione di quella civiltà contadina nella quale vediamo in tralice i valori fondanti che Rausa aveva fatto propri, e che noi, figli di un altro tempo e di un altro modus vivendi, possiamo penetrare anche grazie ad opere come questa.


Paolo Vincenti


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