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Polacchi (a Marittima) brava gente

«Noi ragazzi eravamo spettatori di un film, vissuto come su un set, la cui regia era la guerra…».
Erano educati, sempre ordinati e puliti, molto religiosi, socializzavano con la gente del paese, scherzavano con i bambini, la sera spesso facevano visita alle famiglie.
La presenza dei Polacchi a Marittima di Diso a partire dal 1944 è testimoniata dal generale dell’Esercito Nicola Russi (laurea in Scienze Strategiche al Politecnico di Torino), figlio di un insegnante elementare, piccola borghesia terriera, che all’epoca era un bambino e ha affidato i ricordi a un saggio agile e ben documentato, supportato da un apparato iconografico inedito e a tratti emozionante, scritto a quattro mani via mail durante il lockdown con la storica Cristina Martinelli, titolo: “Da Montecassino a Marittima. Di muli e orsi, epico e mitico” (Edizioni Esperidi, Monteroni di Lecce 2020, pp. 90, euro 13,00).

il “soldato” Wojtek arruolato presso l’esercito Polacco che combattè a Monte Cassino. Fonte: Vanillamagazine.it

DOMANDA: Generale, se ripensa a quegli anni, qual è il primo ricordo dei Polacchi a Marittima?
RISPOSTA: «E’ un ricordo di natura sensitiva: un soldato, con la divisa addosso, nell’immaginario di grandi e piccoli, richiama la guerra, non la pace. Ne consegue che si origina una pausa di riflessione, necessaria ad uno studio profondo, questo: chi sono questi soldati? Hanno in cuore un desiderio di pace o la loro tranquillità è solo apparente e potrebbe permettere rigurgiti di ripresa a combattere? Una certezza, però, trasudava, a guerra finita, da considerazioni storiche, ormai collaudate: questi soldati bisognava giudicarli e guardarli come portatori di pace».

D. Come furono accolti dalla gente del luogo?
R. «Non ci fu un’accoglienza paragonabile alle manifestazioni festaiole delle città liberate in tutta Italia dal giogo nazi-fascista. La gente, però, era accogliente nella sua serenità. Quindi manteneva un equilibrio capace di dimostrare, col suo silenzio che parlava, la buona volontà di associarsi alla bonomia che, sin dall’inizio, traspariva dagli atteggiamenti dei soldati».

D. Socializzavano? Giocavano con i bambini?
R. «Giocare no. Erano sensibili, però, a destinar loro prodotti alimentari energetici (tavolette di cioccolato ed altro)».

D. Ci furono matrimoni misti?
R. «A Marittima no. Mi risulta, però, che ci furono in altri paesi del Salento».

D. Che facevano durante il giorno?
R. «I soldati restano soldati in pace e in guerra: in pace, anche se hanno sostenuto una guerra durante la quale il sangue è scorso a fiumi, continuano ad addestrarsi. Non è pensabile un ozio assoluto».

D. Nel libro lei ricorda che un bambino del paese finì sotto un camion…
R. «Si. L’equilibrio psichico, soprattutto di noi ragazzi, ricevette degli scossoni e si originò in una mestizia capace di richiamare alla memoria tutti i giorni felici e di annullarli. Fino a quel giorno ci ritenevamo immortali. Dopo, ognuno di noi capì cosa significava morire: significava sparire per sempre, senza appello, senza la possibilità di mettersi più in “gioco”. Di colpo, sentimentalmente, ci ritrovammo mortali».

D. Requisirono la vostra casa al mare e foste costretti alla convivenza?
R. «Sapevamo che sarebbe accaduto. Ma il fatto stesso che ci fu riservata una stanza, significava che c’era intesa, che mai e poi mai si sarebbe giunti a decisioni, tipo: io ho vinto la guerra (e faccio quello che voglio), mentre voi l’avete persa. Eravamo amici, sic et simpliciter, col sorriso sulle labbra. La porta che ci separava costituiva obbligo di privacy, da ambo le parti. Io, poi, rimanevo il padrone assoluto di tutt’e due gli appartamenti».

D. Cosa aveva fatto il prigioniero Augusto di cui parla nel libro?
R. «Niente. Augusto non aveva fatto assolutamente niente. Solo che lui, probabilmente profondo studioso del Vangelo, tramutava, con uguale sacralità, l’acqua in vino ed era in un costante stato di ubriachezza. La qualcosa, se non poteva avere conseguenze in campo civile, ne aveva tante in campo militare: comportava provvedimenti che non interferissero con le normali attività giornaliere, messe in calendario. E poi, la sera, non sarebbe risultato morale e dignitoso lasciarlo andare per le strade come un cane sciolto».

D. C’era anche un fachiro con i Polacchi…
R. «Era proprio lui il fachiro: Augusto».

D. La popolazione come reagì quando se ne andarono?
R. «Non ci fu una reazione sentimentale. Durante la loro permanenza, ogni cittadino aveva svolto il suo compito quotidiano, di sempre. La popolazione era, per la percentuale più alta, agricola, capace di rimanere in campagna per tutta la giornata. Noi ragazzi, invece, disponevamo di “trasporti sentimentali” capaci di sciogliersi come cera o neve al sole. Fummo indotti, di colpo,…a pensare».

D. Oggi nella memoria popolare cos’è rimasto?
R. «Tantissimo. I Marittimesi, il giorno della presentazione del libro, sono accorsi numerosi, volendo far emergere reminiscenze, tenendoci a portare qualche cimelio di allora; pronti a suggerire qual era il Quartier Generale dei Polacchi. Erano ansiosi di parlare. Uno di loro mi ha portato una insegna, ricavata su un pezzo di legno, riguardante il taglio di capelli dei soldati (contratto stipulato con suo padre, barbiere). La scritta era in polacco. Il pezzo di legno, a suo tempo, era inchiodato al muro, all’ingresso della bottega.

La signora Cristina Martinelli è rimasta sorpresa da tanta partecipazione di pubblico che non ha esitato a rischiare, in un momento di pandemia residua».

Francesco Greco


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