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La frisa (o frisella)

Chiamata anche pane dei crociati, poiché leggenda vuole che costituisse uno dei principali vettovagliamenti delle truppe cristiane durante i viaggi in Terra Santa, la frisa, o frisella, o tutte le sue denominazioni dialettali, è sicuramente un piatto principe dell’enogastronomia pugliese. Diffusa in buona parte della regione (e anche in Campania e Calabria) è nel Salento che la frisa assume la sua posizione egemone. Per consumarla basta solo bagnarla in acqua!

La sua consistenza e praticità le conferiscono a pieno titolo la definizione di “cibo da viaggio”. Se la portavano i contadini in campagna per potersi sfamare quando necessario, l’acqua la si trovava in pozzi e cisterne. Se la portavano i pescatori nelle loro uscite notturne, per mangiarla dopo averla immersa nell’acqua di mare, che provvedeva inoltre al suo rudimentale condimento. Anche oggi è uno dei primi prodotti alimentari che “emigra” insieme ai giovani che lasciano il proprio paese per andare a studiare al nord, o con famiglie intere che hanno avuto la necessità e il bisogno di spostarsi dalla propria terra per esigenze lavorative.

“Piatto”, non è sicuramente una definizione adeguata, dato che la frisa è a tutti gli effetti preparata con l’impasto del pane (farina, acqua, lievito e sale), biscottata (cotta due volte) in forno al fine di renderla dura e secca, idonea a lunghissimi periodi di conservazione, contrariamente a quanto invece si potrebbe fare con il pane tradizionale.

Un tempo, ogni famiglia, provvedeva alla preparazione del pane a periodi cadenzati. I forni erano pochi e non si poteva soddisfare quotidianamente l’esigenza di tutta la popolazione che necessitava di pane fresco e suoi derivati. Si procedeva così a preparare “lu lavatu”, ossia l’impasto base (da modificare poi all’esigenza per la preparazione anche di pucce e pizzi) per poter soddisfare i bisogni alimentari della famiglia nel breve-medio periodo. Dopodiché ci si metteva d’accordo con il fornaio per infornare e cuocere tutto l’impasto e trasformarlo nel prodotto finito. La quantità di frise (o di taralli) prodotte era solitamente in misura maggiore rispetto a quelle del pane, proprio perché garantiva una più duratura conservazione. Un cibo di lusso per coloro che non potevano permettersi di realizzarlo con le proprie mani, un’irrununciabile abitudine per tutti gli altri.

Si ottiene disponendo parte dell’impasto al fine di formare un ricciolo. Dopo una prima cottura, quando è ancora calda, si taglia in due parti uguali con uno spago lungo il piano orizzontale, ottenendo così una superficie rugosa da un parte, e liscia e curva dall’altra. Dopodichè si procede ad una seconda cottura di entrambi  i pezzi per eliminare l’umidità residua.

Impasto preparatore della frisa

Impasto preparatore della frisa

A cottura terminata si disponevano in grossi recipienti di terracotta, le capase, come il resto dei legumi e dei cereali, coperte da fogliame di alloro o altre piante aromatiche per scoraggiare l’intrusione di insetti e ratti e proteggere il contenuto da eventuali cattivi odori dell’ambiente esterno.

Per consumarla è sufficiente bagnarla e lasciarla “sponzare”, ossia ammorbidirsi fino quasi a sfaldarsi per poi condirla con sale, origano, olio di oliva e pomodori, tagliati a pezzetti e “spremuti” sulla superficie irregolare al fine di lasciarne uscire succo e semi. Tutte le varianti sono gustosamente accettate.

Marco Piccinni


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