La fiera di San Vito e del maialino Or.Vi. di Ortelle
Il Salento pullula di fiere in ogni periodo dell’anno. Le radici pagane di queste celebrazioni si confondono e si mescolano con l’esigenza di rilanciare una forma di economia basata sul commercio diretto nelle regioni più meridionali dell’antico regno di Napoli. I Borbone rispolverarono vecchie usanze e tradizioni, incentivarono l’organizzazione di antiche fiere e ne istituirono di nuove. Alcune sono giunte fino a giorni nostri e conosciamo tutto di loro. Per altre è molto difficile stilare una carta d’identità: impossibile dire quando vennero istituite, per quale motivo, e da chi. Tra queste c’è la fiera di San Vito di Ortelle, festeggiata da secoli la quarta domenica d’Ottobre, e conosciuta anche come la fiera del maialino Or.Vi.
I primi riferimenti scritti sulla fiera si possono leggere nelle pagina dell’Apprezzo dello Stato della Contea di Castro del 1781, in un documento all’interno del quale si riporta una fedele e accurata descrizione delle chiese e dei loro arredi del piccolo borgo dell’antica Contea. L’apprezzo scrive che fuori dal paese “risiede” la cappella di San Vito intorno alla quale, la quarta domenica di Ottobre, si “solennizza la sua festa” con la partecipazione di numerose persone. I mercanti occorrevano alla fiera anche dai paesi vicini, per comprare e vendere mercanzie di vario genere identificate dall’Apprezzo come “Paniere di San Vito”. La giornata era interamente dedicata a questa attività salvo poche ore rubate, al sorgere del sole, per un’unica celebrazione religiosa. Non si vendevano animali, il cui mercato era destinato a fiere di paesi vicini come Corigliano, Maglie e Galatina.
Una fiera grande e importante in una piccola comunità che contava appena 384 persone, suddivise tra “villani” e “civili”. I primi, più poveri, vestivano di lana grezza, dormivano sui pagliericci e dividevano le proprie giornate tra vigne e uliveti, mentre i secondi, più agiati, avevano indumenti più comodi e raffinati e potevano permettersi di dormire sui materassi. Era interamente organizzata dalla locale Univesitas che si riservava ogni prerogativa sulla stessa anche a dispetto dei Conti di Castro e di Lemos, signori di Ortelle, che non potevano contare su nessun diritto di pretesa se non lo jus servitutis o jus vexillorum, ossia il diritto di servitù.
Questo diritto esercitato anche in occasione della festa di Santa Cesarea, obbligava un componente di ogni nucleo familiare ad assistere ed accompagnare lo stendardo e la Bandiera, secondo un’usanza praticata da sempre. Le Universitas dovevano invece contribuire all’invio di una persona per la difesa e guardia del castello di Castro, per tutto il giorno e tutta la notte. Questo diritto fu esercitato dai conti fino al 1700, anno in cui i cittadini vennero esonerati da tale contributo in cambio di una tassazione differente per ognuna delle comunità affluenti nella Contea, almeno fino al 1777, anno in cui il tribunale della Regia Camera abolì tale obbligo.
Riferimenti al diritto di servitù, durante due tra le principali festività della Contea, sono presenti in altri carteggi dell’antico inventario del 1542, annoverati nella platea del 1664 (resa necessaria per conoscere le rendite dei territori della contea) e confluiti nei documenti consultanti dall’Apprezzo. Per tale motivo si ritiene che la festa, con relativa fiera, fosse presente già in epoche antecedenti il 1542.
Dal 2004 alla fiera è stata associata anche quella del maialino Or.Vi, marchio ottenuto dalle iniziali dei comuni di Ortelle e Vignacastrisi (sua frazione) con il quale sono stati contrassegnati i migliori allevamenti suini del basso Salento che da sempre hanno puntato sulla qualità piuttosto che sulla quantità. Come afferma Antonio Bruno, dottore Agronomo, nel blog Centro Studi del Dottore Agronomo e del Dottre Forestale di Lecce:
“E’ davvero interessante l’impegno dell’Amministrazione comunale di Ortelle del Salento leccese , impegnata da diversi anni nella selezione degli allevamenti di suini controllati fin dalla nascita dal dott. Maurizio Caputo e, cresciuti obbedendo alle regole imposte dal Disciplinare della tracciabilità che prevede, tra le altre cose, una particolare attenzione all’alimentazione dei maiali per i quali, così come un tempo, devono essere impiegati esclusivamente prodotti naturali della terra come gli sfarinati dei cereali e i legumi.
Tutto questo conferisce alla carne, oltre che un particolarissimo sapore, che gli intenditori conoscono bene tanto da affollare i quattro giorni della fiera, anche la sua assoluta genuinità”.
Il maiale che un tempo viveva libero nelle foreste salentine (oggi uliveti) e che ha contribuito ad alimentare, oltre che i Romani, anche centinaia di culti e riti pagani che ne prevedevano lo sgozzamento e il consumo della carne, oggi è un importante simbolo nelle tradizioni dell’era civilizzata e industriale.
Marco Piccinni
BIBLIOGRAFIA:
Francesco Accogli, Filippo Giacomo Cerfeda (a cura di) – Vitus Colitur Coliturque Marina. Cappella e fiera di San Vito (Atti del convegno di studi – Ortelle, 21 Ottobre 2011) – Edizioni dell’Iride (2012)
tutte le fiere hanno origine antica, precedenti al regno di Napoli, al vice regno Spagnolo, Aragonese, Angioino; come giustamente avete detto servivano per le popolazioni a vendere i loro raccolti e manufatti e con il ricavato comprare masserizie ed altro per l’inverno. Generalmente se ne faceva una alla fine della stagione fresca ed una in tarda estate-autunno.