Il Carnevale antico
Come tutti sanno, il Carnevale è il periodo dell’anno durante il quale ci si può sbizzarrire, ci si può travestire, si possono fare e ricevere scherzi, tanto che sono stati coniati diversi proverbi: “A carnevale ogni scherzo vale”. Semel in anno licet insanire, tr. Una volta all’anno è lecito impazzire, anche Lorenzo il Magnifico si dilettò a scrivere i Canti carnascialeschi, per invitare al divertimento.
Il Carnevale inizia con la Domenica di Settuagesima e finisce il martedì che precede le Ceneri. L’altro giorno fatidico è il giovedì grasso, che precede il martedì, ultimo giorno di carnevale.
Carnevale significherebbe, dal latino carnem levare, tr. togliere la carne, non consumare più carne, sino a Pasqua, per rispetto a Gesù che si immola sulla croce.
Il Carnevale che io ricordo però era un periodo sì di divertimento, di scherzi, di risate e così via, naturalmente niente a che vedere con quello di oggi.
Negli anni cinquanta e sessanta la povertà era ancora abbastanza diffusa e noi ragazzi dovevamo comunque divertirci. Si costituiva prima di tutto il gruppo di amici. Poi ci si metteva d’accordo sul travestimento da effettuare. Qualcuno proponeva: ”Tie te vesti de fimmana” e il ragazzo indicato doveva cercare di sottrarre qualche veste di qualche sorella o della madre. Per il seno, si arrotolava un po’ di stoffa sotto la veste. Poi qualcuno si vestiva da prete, da contadino, da carabiniere, da soldato, da sposo e da sposa e di altri inventati dalla fantasia povera.
Naturalmente ognuno o ognuna cercava di arrabattarsi per trovarsi un vestito in casa, oppure a casa della nonna o di qualche zia.
La giacca del contadino si otteneva rivoltando quella “du tata”, le maniche erano lunghe; il viso si nascondeva con le maschere di cartone, costruite da sé, un po’ di cartone più morbido, due fori per gli occhi, uno per il naso, l’altro per la bocca.
Si usciva di casa e ci si dava appuntamento in luogo convenuto.
Si andava in giro e si bussava alla porta delle famiglie; alcune aprivano e facevano entrare, noi facevamo un po’ di baldoria, si fingeva di ballare, di cantare, ci si avvicinava ai bimbi piccoli che si spaventavano, dopo aver fatto un po’ di baccano, l’esclamazione era di rito: “vadimu ci siti” (vediamo chi siete) ed ognuno di noi si toglieva la maschera di cartone. Allora i proprietari offrivano qualcosa per ricompensarci della prestazione fatta: caramelle, cioccolatini, noci, a volte qualche bicchiere di vino. Qualche proprietario non apriva per niente e noi esclamavamo: “mamma mia cc’è spilorciu”, mamma mia quanto è avaro.
Le serate le trascorrevamo così, nell’ingenuità più assoluta, a volte comunque, si veniva alle mani con altri gruppi rivali per i più futili motivi.
Giungeva il giovedì grasso e lo si attendeva con ansia, perché si sarebbe mangiato pasta asciutta con carne di maiale al sugo, ecco perché viene detto giovedì grasso.
Poi martedì, ultimo giorno do Carnevale, ci si scatenava perché il giorno successivo, il mercoledì delle ceneri iniziava la quaresima, periodo di penitenza e di ravvedimento.
La Caremma o Quaresima o Quaremme è il simbolo della penitenza quaresimale, della mortificazione dei sensi, quasi purificazione dal peccato e dalla baldoria carnevalesca.
La Caremma è rappresentata da un fantoccio vestito con un panno nero e con un fazzoletto che lascia scoperto solo il viso. Ha tra le mani il fuso e la conocchia con cui fila la lana quasi a riproporre i riti magici di un tempo e a simboleggiare come il trascorrere della vita sia controllato da entità soprannaturali. La tradizione racconta di un’arancia (collocata ai piedi della Caremma) su cui sono infilzate sette penne di gallina disposte a raggiera che corrispondono alle sette settimane della Quaresima o ai sette vizi capitali.
La Caremma, secondo la tradizione, viene bruciata il Sabato Santo, quasi ad esorcizzare il male, a ritualizzare la liberazione da tutto ciò che è simbolo di sterilità della terra, di sofferenza, di miseria.
Il martedì di Carnevale era un altro giorno fatidico, in quanto si doveva fare una cena abbondante e “u tata” poteva bere tanti bicchieri di vino.
Il giorno dopo iniziavano i quaranta giorni di lutto.
La sera ci si recava alla funzione religiosa e c’era la cerimonia dell’imposizione della cenere sulla testa. Si dovevano bruciare le palme, i rami d’olivo, benedette il giorno delle Palme e la cui cenere veniva utilizzata per imporla sulla testa ai fedeli, dicendo loro: “Polvere se e polvere diventerai”.
Dopo l’imposizione delle ceneri, iniziavano i quaranta giorni in preparazione della Pasqua. Durante tutti quei quaranta giorni bisognava digiunare ed astenersi dalla carne il venerdì.
Erano già di per sé anni di ristrettezze economiche…poi bisognava digiunare ed astenersi dal mangiare carne.
Si giungeva alla Domenica delle Palme!!!
Rocco Margiotta