Coloni e contadini, il traino dell’economica rurale
Gli occhi si aprono, la mano scorre fino a raggiungere l’orlo superiore del lunzuolo che, con un gesto rapido e preciso dettato ormai dall’abitudine, solleva fino a scoprire il corpo immediatamente aggredito dalla frescura della notte. Ci si mette in piedi per raggiungere i giacigli dei figli. Con una mano bonaria su una spalla si dà loro una leggera scrollata mentre una voce che, con la stessa imprevedibilità di un messaggio registrato che si ascolta tutti i giorni, bisbiglia: “Alzatevi, è ora”. Ci si sposta senza far rumore, quasi come a voler far finta che la giornata che stà per cominciare sia diversa da quella che l’ha preceduta o da quella che la seguirà; come se i figli potessero ancora dormire invece di spaccarsi la schiena nei campi, ancora; come se la propria moglie, incinta, non dovesse dar anche lei una mano nei lavori pesanti. Non c’è tempo per pensare, non si vedono ancora i primi raggi di sole ma è già, sempre, tardi. Ci si infila il vestito logoro, sempre sporco di terra che verrà lavato una volta al mese, forse. In una tasca un tozzo di pane. Si caricano gli arnesi da lavoro su un carretto o in spalla per poi attendere che tutta la famiglia sia pronta. Si esce insieme di casa, i primi raggi di sole fanno timidamente capolino ad est. Ci si mette in marcia tutti insieme, di nuovo, come il giorno precedente e come quello che seguirà.
Era difficile la vita dei coloni, manodopera necessaria per coltivare la terra di chi non sapeva come fare o non aveva voglia di farlo con le proprie mani. Un signorotto, un don, o un semplice proprietario terriero. Non si riceveva nessuna paga giornaliera se non metà dei raccolti a patto di contribuire alle spese necessarie per la concimazione e la semente nella stessa percentuale. Un equilibrio piuttosto instabile che spesso degenerava in una gara al più furbo il cui slogan potrebbe essere: “Tu non mi paghi le spese, ed io mi frego il raccolto”. Spesso erano i coloni a spuntarla se si dimostravano abbastanza arguti da nascondere bene la refurtiva agli occhi dei vigili signori.
Ognuna delle due parti utilizzava la propria metà di “guadagno” in maniera diversa: i coloni avrebbero quasi interamente venduto il loro compenso al fine di acquistare alimenti più economici: il grano costava più dell’orzo ma da entrambi si può ricavare il pane. I soldi guadagnati sarebbero serviti per mantenere la famiglia nei periodi che intercorrevano tra un raccolto e l’altro anche se, non di rado, il capo famiglia si sacrificava in un secondo lavoro che avrebbe esplicato durante le ore notturne. La metà del raccolto del signore invece sarebbe stata in parte destinata ad amici e parenti, dei piccoli doni che gli stessi coloni avrebbero consegnato per conto del padrone come dei lacchè.
Nei periodi estivi quando fichi, tabacco e grano richiedevano uno sforzo in più, i coloni potevano essere “stipati” presso la casa del signorotto, in una delle stanze designate per la servitù oppure in ricoveri di fortuna, le cosiddette case coloniali, prive di ogni comfort (tetto incluso in alcuni casi) se non un po’ di paglia e delle tavole per rimediare dei giacigli di fortuna. Questi ambienti, se permettete l’eufemismo, potevano essere condivisi da più famiglie con le quali, volenti o nolenti, si doveva andar d’accordo per evitare severi provvedimenti da parte del padrone.
Durante la giornata i coloni si dividevano i compiti, attenendosi alle disposizione del don o seguendo le direttive del guru del gruppo. Mentre ognuno si occupava delle proprie mansioni portava a compimento anche una segreta missione di spionaggio: controllare che i coloni di altre famiglie non si appropriassero illecitamente di una parte del raccolto, riducendo così la porzione da dividere a fine stagione. Tutti i membri della stessa famiglia diventavano complici e alleati di un gioco senza regole il cui premio finale si sarebbe tradotto in pane, farina, fichi.
Erano tantissime le attività alle quali potevano dedicarsi i coloni, non tutte necessariamente connesse al mondo agricolo. Una delle pratiche più irritanti, nel vero senso del termine, consisteva nella pulizia di frumento, legumi e cereali nell’aia. Si disponevano su un basolato le spighe di grano o i baccelli secchi per farli calpestare da una animale di grandi dimensioni. I bambini seguivano l’animale come una chioccia per raccogliere quella mistura di frammenti di baccelli, legumi o grano per setacciarli al vento. La parte leggera, lo scarto, veniva soffiata via mentre la parte pesante, il legume o il chicco di grano, ricadeva sul basolato. Era quindi necessaria la presenza del vento per portare a termine tutto il processo correttamente. Al termine dell’operazione sull’aia rimaneva solamente l’utile e sul bambino che ha operato da setaccio umano migliaia di frammenti dello scarto prodotto dall’operazione, misti a terra e polvere che potevano diventare velocemente molto irritanti per la pelle oltre che averne i vestiti intrisi.

Aia, un pollaio e una casa coloniale sullo sfondo
La sera si mangiava tutti insieme. Le donne intente a preparare la cena in un unico grande calderone alimentato dal fuoco. I bambini vi giocavano intorno con estrema spensieratezza tanto che sembrava quasi avessero dimenticato la giornata di lavoro. Non di rado capitava che la concitazione dei più piccoli facesse volare nel calderone scarpe e altri oggetti. Tolto l’intruso dal pentolone le donne continuavano a cucinare, come se nulla fosse successo, e tutti avrebbero mangiato con gusto anche se la portata della cena era la stessa da settimane. Se avanzava qualcosa lo si poteva disporre nelle cisterne vuote, dove le temperature più fresche avrebbero consentito di conservare gli alimenti per alcuni giorni. I frigoriferi non servivano. Non ancora.
Quella del colone non era una professione, non era una classe sociale né tantomeno uno stile di vita, spesso era l’unica opportunità di lavoro per migliaia di giovani e vecchi che sognavano un giorno di poter aver un fazzoletto di terra dove poterci scrivere figurativamente il nome. Poter ripetere con orgoglio e senza mai stancarsi: “è mio” o, al proprio figlio: “un giorno questo sarà tuo!”. Alcuni ci riuscivano. Con il sudore versato in anni di sacrifici riuscivano a comprare un pezzo di terra. Altri invece non potevano far altro che aspettare quel giorno, che forse non sarebbe mai giunto, in cui avrebbero potuto definirsi proprietari.
I coloni più fortunati potevano usufruire dell’enfiteusi, un vera e propria forma di contratto, piuttosto rigoroso e dettagliato, stipulato con un propritario terriero in presenza di un notaio, tramite il quale si garantiva il diritto di godere di un fondo per un periodo di tempo molto lungo (trent’anni in media). Il colone avrebbe dovuto far fruttare la terra, donando una percentuale del raccolto (o l’equivalente in denaro) al proprietario legittimo. Del resto avrebbe potuto disporne a suo piacimento.

Attrezzi agricoli – museo civico Giuggianello
La figura del colono nacque inseguito alla caduta dell’impero Romano d’Occidente, proprio in Puglia. Se nel resto d’Italia le orde barbariche dei goti seminavamo morte e distruzione al fine da indurre la popolazione rurale a ripiegare nelle città, la situazione della Puglia Bizantina, ormai parte dell’ex impero romano d’oriente, garantiva la disponibilità della manodopera necessaria alla coltivazione dei latifondi, che vennero scissi in più lotti nei quali si sarebbe alternata la produzione, affidando ogni lotto ad un colono. Questa nuova figura, legittimata dalla Prammatica Sanzione emanata dall’imperatore Giustiniano I il Grande, andò via via a sostituire lo schiavo di massa e divenne di fatto una garanzia per la produttività terriera.
Il colonato ha quindi avuto per secoli la terra in concessione senza possederla mai veramente. Una situazione sulla quale le varie popolazioni intese a conquistare le regioni meridionali hanno sempre posto sul piatto della bilancia come adeguata merce di scambio pur di ottenere fedeltà. Se ritorniamo nella seconda metà dell’800, quando un uomo con barba e capelli grigi che nei due mondi chiamavano “l’eroe” e che si sentiva dire in giro che voleva unificare l’Italia, aveva promesso la terra ai contadini se questi avessero appoggiato un nuovo sovrano; un certo Vittorio. Molti non lo conoscevano, non sapevano neanche da dove venivano quegli uomini con le camice rosse ma avevano promesso loro la terra, e questo era sufficiente per sposare la loro causa. La storia ci insegna però che quella promessa non venne mantenuta, anzi si tradusse in una serie di esecuzioni e arresti che ferirono gravemente la Sicilia, poi descritte da Verga nella novella Libertà. Questa si conclude con un dialogo un militare e un carbonaio che vide per l’ennesima volta distrutti i sogni e le speranza di una vita, di tutta una comunità: dove mi conducete? – In Galera? – O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!…
Marco Piccinni