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La produzione della pannina nel Salento del XVIII sec.

Una delle manifatture tra l’altre, che tiene occupate molte delle donne di varie popolazioni della Provincia di Lecce si è quella che tra di noi addimandasi Ferrandina. Si è questa una pannina, che trae senza dubbio non men la sua denominazione, che la sua origine dalla città dello stesso nome nella Basilicata, non molto discosta da Matera, laddove ci è stata comunicata forse per opera precisamente degli religiosi di San Domenico, obbligati dal di loro istituto a vestir di bianche lane.”

Così scrive nel 1786 Ferdinando Maria Orlandi, ultimo rappresentante della famosa famiglia tricasina degli Orlandi, in uno dei suoi scritti minori, lucide lezioni di economia agraria che se applicate, come egli si augurava ma come in realtà non avvenne, avrebbero potuto segnare una svolta decisiva nel limitato orizzonte dell’Illuminismo meridionale.

A noi non mancano le materie prime: abbondiamo di lane, di bambagia, e di olio; ed abbondiamo pure di braccia; abbisognamo solo, che ci si comunichi quello spirito di attività, che vivifica, e mette in moto tutto.

Parole che alla luce della grave crisi economica che attanaglia l’occidente da diversi anni ormai , suonano stranamente attuali, anche se scritte più di sue secoli fa. Un campo in cui applicare magistralmente la teoria dei corsi e ricorsi storici di Gianbattista Vico.

Ferdinando Maria Orlandi descrive con dovizia di particolari l’intero processo per la realizzazione della Ferrandina e del Tonicello, due tessuti di diversa trama, consistenza e pesantezza, con i quali poter realizzare gli indumenti dei religiosi, quelli più pesanti ed invernali con il primo, e quelli più leggeri, intimi, con il secondo.

Il processo parte dalla bambagia, resa leggermente grassa al fine di pettinarla con efficienza tramite uno strumento, chiamato arco, costituito da una semicerchio di legno elastico teso da una corda di budello.

Sia quando il materiale è ancora molto grezzo, che a lavorazione terminata, si procede ad un accurato processo di sbiancamento con liscivia, che prevede diversi bagni con concentrazioni diverse di “sapone” al fine di sgrassare e imbiancare gradualmente il prodotto, da far poi asciugare rigorosamente all’ombra ed essere infine stirato sul subbio.

Una filatura molto sottile permetteva una maggiore efficiente lavorazione della materia prima che permetteva così di ottenere tessuti eccellenti, in grado di competere con la più alte maestranze europee. Chissà perché però, così come avvenne per la fiorente attività della concia delle pelli, si preferì acquistare la pannina oltre i confini del regno di Napoli, con un grave danno per l’economia locale.

Antico telaio

Telaio per la tessitura (museo civico di Giuggianello)

L’Orlandi infatti contava, per l’antica provincia leccese, 41260 religiosi, tra monaci e monache (negli anni 1783-1784), per i quali, il 10% necessitava di abiti bianchi per una spesa minima annua di 12.000 ducati. Una somma considerevole che avrebbe potuto fruttare diversamente se spesa all’interno dei confini della provincia. L’introduzione di moderne tecniche di tintura anche nelle nostre contrade, coadiuvate dall’efficienza e dai contatti dei porti salentini con le grandi potenze economiche, avrebbe permesso poi di soddisfare la richiesta di altri ordini religiosi, raggiungendo così un capitale di ben 36.000 ducati l’anno che periodicamente arricchiva le grandi imprese di altrettanto grandi città.

Nelle province più isolate del regno che pativano la fame e la cui principale attività era costituita dal colonato, questa promettente “industria” tessile avrebbe permesso un potente sviluppo economico in grado di risollevare le sorti di intere generazioni la cui unica aspirazione sarebbe stata esclusivamente quella di spaccarsi la schiena nei campi e nella masserie, ogni giorno, da prima ancora che sorgesse il sole fino a dopo il suo tramonto.

Marco Piccinni

Bibliografia:

Del tabacco e della Pannina memorie due scritte dal sacerdote D. Ferdinando Maria Orlandi – Edizioni dell’Iride (2006)


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