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La chiesa rupestre di Santa Maria della Grotta di Ortelle

Sorge in un’area molto importante per la piccola cittadina di Ortelle. Quel “Largo di San Vito” già sede di una precedente cripta affrescata, sita sotto l’attuale chiesa di San Vito e Santa Marina (edificata tra il 1776 ed il 1779) utilizzata poi come ossario, nonché scenario fondamentale per l’antica e tradizionale fiera del maiale “OrVi” che arriva ogni anno puntuale ad Ottobre. Si tratta delle chiesa rupestre di Santa Maria della Grotta.

Un edificio semi-ipogeico dall’aspetto esteriore un po’ grottesco forse, e da un invaso interno caratterizzato da diverse stratificazioni di affreschi, alcuni dei quali fortemente danneggiati a causa di allagamenti ripetutisi nei secoli nei periodi di intense piogge. La facciata, orientata ad ovest, ha una porzione realizzata in muratura e presenta alcune nicchie, una finestra, due porte di ingresso ed un piccolo campanile a vela.

Chiesa rupestre di Santa Maria della Grotta

Risale al XIII secolo. L’impianto planimetrico originario nasce a tre navate, scandite da altrettante arcate, successivamente rimaneggiato per poter praticare una seconda scala di accesso e un ambiente più ampio per contenere probabilmente un maggior numero di fedeli o più semplicemente per esigenze funerarie. Anticamente gli altari erano quattro: nelle absidi, rispettivamente al centro quello della Madonna delle Grazie, a sinistra quello di S. Eligio con storie della sua vita, a destra i SS. Medici, e nella zona antistante la navata destra, sulla parete, S. Chiara, oggi non più presente. Ed è proprio in corrispondenza di questo altare che è possibile ammirare l’affresco più enigmatico della chiesa rupestre, che tanto ha fatto discutere gli storici dell’arte negli ultimi anni al punto da essere definito da Sergio Ortese come “assolutamente unico nel panorama pittorico Salentino ma anche per quello Italiano”.

Altari

Sembrava essere fino a poco tempo fa un vero e proprio rebus, inspiegabile. Si è rivelato invece il frutto di una interessantissima serie di “prestiti” di immagini e rappresentazioni che coinvolgono due dei più importanti cantieri pittorici santini, che hanno portato alla realizzazione del ciclo di affreschi all’interno della chiesa di Santa Caterina di Alessandria a Galatina, nella quale confluiscono stili e scuole umbre e napoletane, e la chiesa di Santo Stefano a Soleto.

L’affresco prende il nome di Trinità con gli Angeli, datato prima al XIII secolo da Cosimo Damiano Fonseca e poi posticipato al XIV da Giovanni Giangreco. L’ultima datazione, quella definitiva, lo colloca invece nel primo trentennio del Quattrocento. Ma cosa ha questo affresco per meritare così tante attenzioni?

Trinità con Angeli

Raffigura l’Eterno Padre con le braccia protese al cielo trapunto di stelle, accompagnato da una colomba, dallo Spirito Santo e affiancato da due angeli ceroferari. Sotto di lui due donne che reggono un velo che si riteneva potesse essere una sindone, utilizzata per coprire l’altare durante il periodo pasquale al fine di occultare lo sguardo del fedele e indurlo così ad un “digiuno visivo”. Il velo contiene tre cerchi all’interno dei quali sono raffigurate le tre scene simbolo della passione del Cristo: crocefissione, resurrezione e ascensione.

Secondo un’ultima interpretazione il velo sarebbe in realtà un telo di tradizione Adriatica, sorretto da due Sante, un “collante” tra il popolo Cristiano, la Chiesa e il divino. La figura femminile a sinistra è identificabile con santa Caterina d’Alessandria. Ha la mano destra sulla ruota del martirio, una corona gemmata ed un giglio bianco. La figura a destra è più enigmatica: capo ricoperto da un velo perlinato  e un mantello di colore rosso. Ha una tiara con sette corone, indossata dal messia che si presenta per lo scontro decisivo in una delle due famose tavolette della Staatsgalerie di Stoccarda. Un’opera napoletana degli anni trenta del Trecento. L’episodio e gran parte delle scene restanti è stato riprodotto nel ciclo pittorico della chiesa galatinese menzionata poc’anzi. La Santa regge in mano due chiavi, una d’oro ed una d’argento, possibile rappresentazione della chiesa romana chiamata in causa per illustrare le sofferenze patite dal Cristo. Un immagine spesso accostata alla Vergine Maria che in questo caso impersonificherebbe tutta la collettività del popolo Cristiano.

Una grande composizione che sintetizzerebbe l’essenza stessa del Cristianesimo e della Chiesa tutta. Ed ecco dunque l’immagine del testo sacro al quale questa fa riferimento, la Bibbia, rappresentata nel vecchio e nel nuovo testamento nelle due raffigurazioni allegoriche del Sole e della Luna ai piedi delle due donne. E ancora un’altra serie di figure, quasi totalmente sbiadite, tutte nimbate eccetto una che protende lo sguardo verso l’alto. Forse il committente e finanziatore dell’opera che si ripresenta in un atteggiamento già visto nella chiesa di Santo Stefano nella magica terra di Soleto. Il pittore sembra essersi inspirato particolarmente al ciclo pittorico soletano tanto da catturare altri dettagli come il taglio degli occhi della Vergine, che riprende quelli di un Giuda, o il suo viso, molto simile a quello della madre di Santo Stefano che allatta il figlio appena nato.

Questo affresco non ha più segreti dunque, ma non per questo smetterà di affascinare e ammaliare.

Marco Piccinni

BIGLIOGRAFIA:

-Ortelle. Cripta di Santa Maria della Grotta. Storia e restauri. A cura di sergio ortese. Lupo, 2009

-Un enigma iconografico nella chiesa rupestre di santa maria della grotta a Ortelle. Sergio Ortese, Kronos pgg 99-108


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