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“Puoi chiamarmi Sonsiray”, bell’esordio di Manuel Pitton

I tormenti del giovane Ivan. Parafrasando Goethe e il suo Werther, due secoli dopo ritroviamo immutati i furori, i pudori, i chiaroscuri dell’animo della generazione 2.0, confusa, smarrita, turbata dalla Babele semantica che la avvolge come peplo malefico, dall’eccesso di icone che la contemporaneità impone in modo aggressivo, tese all’omologazione, alla formattazione di specificità e individualità.

Puoi chiamarmi Sonsiray” (Viaggio alla ricerca del sole interiore), Edizioni Miele, Lecce 2012, pp. 108, € 10 (Collana “Percorsi d’autore”), è un romanzo d’esordio e di formazione in cui Manuel Pitton ha fatto confluire la sua rabbia esistenziale, la faticosa ricerca di un’identità, una dimensione sentimentale e spirituale. Che sono la sintesi speculare di quel sostrato che si agita nella mente di milioni di ragazzi del III Millennio, il tempo in cui si cerca disperatamente di non perdersi omologandosi, puntando alla ricerca di se stessi e dare così un senso compiuto alla propria esperienza. Doloroso è invece il non protagonismo coatto, l’essere sottratti ex abrupto alla rimodulazione dei destini del mondo, sospinti nell’effimero.

Ci impregna un relativismo straniante: viviamo al crepuscolo di valori antichi svuotati senza che altri siano emersi a dare un minimo di pathos alla quotidianità e alla socialità. Nietsche ha ragione: “Non possiamo tornare all’antico; abbiamo bruciato le navi. Resta solo da avere coraggio. E avvenga quel che avvenga”. Viviamo così sospesi nel vuoto spinto di una precarietà strutturale: dopo aver studiato, milioni di giovani riescono a trovare solo lavori da 250 € al mese, e non possono programmare un futuro minimo. La “soluzione” offerta da una governance putrefatta, tesa a mungere ulteriori, osceni benefit e nella conservazione dello status quo, è quella di sempre: due stracci nel trolley, infila pure il pc e prendi al volo il primo treno.

E’ la via che si prospetta anche a Ivan, il cui vissuto è segnato da una serie di “tradimenti” e lacerazioni che lo segnano nel profondo: il padre se n’è andato ch’era piccolo, uno zio senza figli l’ha allevato sostituendo la figura paterna. Quando questi muore d’improvviso per il ragazzo è notte: un ulteriore lutto duro da elaborare. Reagisce negandosi, ed è una “chiusura” lacerante che rischia di perderlo al mondo.

Pur giovanissimo, Pitton padroneggia la sua storia di iniziazione al dolore, l’Universo, la vita fatta di abbandoni senza senso e quindi ancor strazianti, addii immotivati, fughe dalle responsabilità, assenze inspiegabili, diserzioni insospettate e sospeso fra due terre e due culture, europea e mediterranea, cerca la sua identità esistenziale e sentimentale in un confronto continuo, sincero con se stesso che in certi passaggi somiglia a un’autoanalisi dai tratti aspri e impietosi, mai consolatori né tesi alla pur troppo facile rimozione.

Pitton tratteggia con pennellate decise, efficaci la solitudine cosmica, leopardiana in cui oggi siamo avvolti grandi e piccoli, le nostre paure patologiche, le insicurezze, le fragilità, i ripiegamenti, le sublimazioni. Che fanno soffrire se ci si nega al mondo e al prossimo in un individualismo sterile. Viceversa, schiude orizzonti insperati se si accetta il dialogo con se stessi, l’inconscio, benché impietoso, con gli altri, anche se alienante, con l’Universo e ogni sua creatura. Magari sostenuti da uno spirito-guida e da accidentali illuminazioni. Per tentare la propria via senz’alibi, con un atteggiamento razionale, coscienti che siamo parte del tutto, tessera di un puzzle ignoto, granelli di sabbia di un disegno che ci sfugge, ma che pure c’è e ha un senso, verso cui, inconsciamente, muoviamo.

Giovani scrittori dunque crescono, sospesi fra il Sud-Est italiano e il Canton Ticino (dove Pitton è nato), l’Europa e il Mediterraneo, l’Oriente e l’Occidente. La terra dove vivono, il Salento (dal 2001 a Gagliano, che considera la sua “patria”), è colma d’energia ancestrale, pura, creativa, che ci contamina e con cui l’uomo del XXI secolo intende ridisegnare i confini del mondo, l’animo, l’esistenza, in cerca di altre dimensioni, equilibri interiori, gaie sintonie.

Qualche appiglio Ivan lo trova: una Clara orfana che aspetta un bambino e non ha un lavoro, il prete in una chiesa assimilata dai moderni edifici, una vecchia un po’ filosofa che appare e scompare come un’ombra tormentata. Ma il “segreto” è tutto nella ricerca inquieta, insonne, mai doma, dilatata all’infinito di un orizzonte accarezzato da un raggio di sole, “Sonsiray”. Che più ci sfugge e più sentiamo nell’aria tiepida, eccitata che c’è a dare un senso al tutto.

Francesco Greco


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