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Il Palazzo di Casamassella

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Perché le nostre e le future generazioni non dimentichino l’opera e l’umana figura di Antonio de Viti de Marco, professore di scienza delle finanze, deputato al parlamento, meridionalista insegne, strenuo difensore della lbertà, vate di tempi migliori.

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Il Menhir Polisano

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Ai confini tra i comuni di Muro Leccese e Giuggianello, ai piedi della leggendaria collina della ninfe e dei fanciulli dove si rincorrono ancora, a distanza di secoli, le parole di Nicandro di Colofone e la maledizione delle ninfe Epimelidi ai danni di giovani, ingenui e spavaldi pastori messapici; dove gli ulivi sembrano urlare pur senza emettere nessun suono che orecchio umano possa udire, ma scuotendo ogni filo d’erba nella vallata in cui Ercole affrontò una delle sue dodici fatiche e disturbando il sonno della vecchia, sul suo antico, millenario giaciglio. E’ in quest’angolo che si innalza una stele in carparo, il menhir Polisano.

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La valle dell’Idro e la Chiesa-cripta di Sant’Angelo

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Segni, croci, incisioni. Elementi indelebili di un passato scritto con il sangue sulla pagine di un libro di pietra e consegnate ai posteri. Sono i messaggi che inconsapevolmente hanno viaggiato, seppur immobili, nel corso degli anni fino a giungere a noi. Siamo nella Valle dell’Idro, un tempo la paludosa Limini recentemente bonificata, sede nei secoli scorsi di un vero e proprio villaggio rupestre, nato probabilmente inseguito all’abbandono della città di Otranto dovuto al famoso sacco del 1480.

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I ruderi dell’Abbazia del Civo

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Matonna de Ciu, Santa Maria del Civo, Sancta Maria del Cibo, le denominazioni che dai giorni nostri fino al lontano periodo di dominazione normanna hanno accompagnano il complesso abbaziale sito tra i comuni di Racale, Taviano e Melissano, fino a non molto tempo fa meta di pellegrinaggio ogni 25 Marzo, giorno che tradizionalmente ricorda l’Annunciazione. Era proprio questa una delle scene che coronava uno dei tre altari presenti all’interno della chiesa, nel suo rimaneggiamento seicentesco, insieme ad una raffigurazione di San Ignazio da Loyola e della titolare, la Madonna del Cibo, una rielaborazione dell’Odigitria con in mano un uccellino bianco ed una melagrana. Un’immagine molto venerata dal conte Goffredo di Nardò, il cui connestabile Giliberto Senescalco venne sepolto nella suddetta abbazia nel 1120.

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