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“Andata e ritorno”, quando la vita era in bianco e nero

MATINO (Le) – Ecco un romanzo che purtroppo non scalerà le classifiche di vendite, non sarà un best-seller, il suo autore non lo chiameranno in tv a fare passerella alla Bruno Vespa. E tuttavia, “Andata e ritorno”, pp. 156, s.i.p., autoedizione, Matino 2015, è una storia che andava assolutamente scritta, e ringraziamo Antonio Manco da Matino, ex emigrante, per avercela donata.

E’ la sua – e nostra – storia di ragazzo del dopoguerra, quando la vita era in bianco e nero e il mondo era sfiorato dalla luce calda della speranza, colmo di energia, gli uomini erano poveri ma dignitosi, oltre che generosi, prima che tutto si avvitasse nella bruttezza e nella volgarità, la cattiveria e l’aridità del cuore (“Eppure avevamo del buon seme! L’abbiamo sprecato!”).

Nella sua autobiografia, Manco traccia quindi, anche senza volerlo, un “prima” e un “dopo”. E li mette a confronto col suo stile piano, scarno, privo di orpelli, tipico delle storie realiste, dove c’è molta vita nuda e cruda e poca speculazione intellettuale. Perché la vita incalza chi nasce nel popolo, pone domande brutali, esige risposte immediate.

Andata e Ritorno

Copertina “Andata e Ritorno”

E’ un romanzo che scolpisce il mondo di ieri senza scordare nulla e che perciò si trasfigura in un trattato di antropologia e di sociologia, che ha valore e pathos storico più di un dotto trattato accademico, ma anche di un saggio di economia. Manco è un “franco narratore” (un pò Gavino Ledda di “Padre padrone”, il Vincenzo Guerrazzi di “Nord e Sud uniti nella lotta”, l’Antonio Campobasso di ”Nero di Puglia”) che ci fa capire il perché dell’eterna Questione Meridionale irrisolta, il sostrato dell’unità d’Italia che mai sarà metabolizzata dall’uomo meridionale, e poi le lacerazioni delle due guerre, la ricostruzione materiale e morale, l’emigrazione che atomizzò il Sud e la sua anima con riflessi di cui scontiamo tuttoggi le conseguenze.

Ecco Antonio che a 9 anni attraversa un campo e si becca una denuncia, che il padre fa ritirare per 500 lire, evitando poi la piazza del paese per la vergogna. Fuma le “Alfa” sfuse e poi al militare a Roma, le punizioni inflitte dai superiori per un bagno refrigerante, l’amicizia con un comunista che lo porta alla sezione di Trastevere e la cui fidanzata gira con un chilo di acciaio in borsetta, giusto per picchiare alle manifestazioni, l’ipotesi di un lavoro in uno scantinato come tornitore, io colonnello Nerone che al momento del congedo lo saluta: “Valiò buona fortuna se puoi vattenne all’estero che qua non c’è niente da fa”. Consiglio che mezzo secolo dopo, nel Sud, è ancora attuale più che mai e ciò tradisce il fallimento di tutte le classi politiche dal dopoguerra a oggi: né pane né dignità.

Eccolo preoccupato di perdere i capelli, cosa che attribuisce alla “bustina” e cerca di contrastare col “Petroleum”, inutilmente. Torna a casa ma solo per preparare la valigia di cartone per emigrare a Ginevra: la madre gli compra due maglie pesanti e un cappotto. Gli dà trentamila lire, ma si raccomanda, se non gli serviranno, di rimandarle indietro. Poi si ammala ma decide lo stesso di sposarsi: si preoccupa di essere povero (“non avevo una lira nonostante le apparenze”) e malato e non sa come dirlo alla ragazza, che però ha capito tutto ma lo ama lo stesso…

Un romanzo che oltre agli snodi esistenziali di un uomo che conosciamo bene, di una storia comune a milioni di tanti meridionali, si può leggere anche come un documento ricco e prezioso di un secolo, il (secondo) Novecento da cui pare ci separino anni-luce. Dalla valigia legata con lo spago al trolley con dentro la laurea: il destino dei meridionali è però rimasto uguale. La bellezza della storia raccontata e le sue infinite interfacce (dall’epos all’etos) fanno di Manco una sorta di Omero dei nostri giorni, un Dante che ci conduce nei gironi del suo, e nostro, inferno.

Francesco Greco


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