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POETI. “Per poco tempo”, ma immortale

Poiché si esiste per puro caso/ ho indovinato il mio futuro/ lanciando i dadi/ cercato indulgenza dal destino/…” (Versi).
Peccato che non l’abbia avuta, come meritava, e Cosimo Russo ci abbia lasciati all’improvviso, pochi mesi fa, a 45 anni.

Increduli e attoniti siamo tutti noi che lo abbiamo conosciuto, incrociando, seppur fugacemente, il suo cammino inquieto e d’istinto gli abbiamo voluto bene, percependo la sua bontà, la delicatezza d’animo, la ricchezza del suo mondo interiore, lo sguardo aperto verso il mondo, gli altri, l’Universo.

Lo strazio indicibile dell’abbandono per la moglie Lucia (come la nonna), le sue belle bimbe Chiara e Sofia, i genitori Luigina e Umberto (persone conosciute e amate nella loro Gagliano e dintorni), ora è addolcito dal saperlo immortale grazie a questa sua prima silloge “Per poco tempo” (Poesie scelte), Editore Manni, Lecce 2017, pp. 96, euro 13,00, collana “Pretesti” diretta da Anna Grazia D’Oria (prefazioni di Matteo Greco e Alessandra Peluso).

Presentata in una serata ricca di pathos condotta da Silvia Russo a “Casa Ciardo”, con un pubblico partecipe e commosso, che ha conosciuto “Mimmo” attraverso le letture dei versi degli attori Carla Panico e Paolo Russo, sottolineata dalla musica che amava (al pianoforte Luigi Ferilli e Maria Fino, canto di Mariella Mangiullo).

Presentazione della silloge poetica "Per poco tempo" di Cosimo Russo

Il vento – così presente nelle liriche di Cosimo Russo, laureto in Economia e Commercio a pieni voti nel 2001 – si è premurato di spargere per le terre brulle, i cieli mediterranei e i mari intorno il soffio caldo e lieve della poesia più autentica e pura, quella che arriva al cuore di tutti – al di status sociale e formazione culturale – sentendosi sfiorati da una grazia infinita e da un’energia che unisce gli uomini e i mondi sparsi negli Universi conosciuti e ancora da scoprire, al di là delle galassie.

Il “dono luminoso” (Matteo Greco), queste poesie che “vivono intensamente il silenzio” (Alessandra Peluso), a tratti fragili come la materia dei sogni e trasparenti come un’aurora d’inverno sul Ciolo (“Mi porto quest’alba/ cucita nel cuore…”, Alba), sono state svelate con pudore, dolcezza e magia, come quando si apre uno scrigno riposto nell’angolo più segreto della soffitta e si ritrovano intatte e si rivivono le emozioni vissute.

Presentazione della silloge poetica "Per poco tempo" di Cosimo Russo

Cosimo le ha scritte con l’incanto del fanciullino pascoliano che era in lui, la leggerezza del volo dell’albatros di Baudelaire, ma anche la sensualità di Neruda e il kharma intenso di Tagore, scoprendo il “santo Graal della parola”, Insonnia.

Leggeva molto, avidamente, questo poeta appartato, geloso dei versi che riponeva nel cassetto della memoria, ed è quel che deve fare chi vuole approcciarsi a un genere difficilissimo qual è appunto la poesia, che non concede finzioni, supponenze, che deve dire molto con poche, nude, essenziali parole, catturare la luce intorno e la potenza maieutica del logos e imprigionarli per sempre sulla carta e farne dono prezioso agli altri.

Presentazione della silloge poetica "Per poco tempo" di Cosimo Russo

In “Per poco tempo” già si disvela tutta la maturità dello stile della sua poetica, la complessità dell’anima mundi, il respiro tragico del tempo immemore (“Ho accettato la catena/ padre-figlio figlio-padre…”, Padre) che tutto divora e relativizza, il suo sentimento più profondo, la sintonia col cuore del mondo e di tutti noi che lo abitiamo con allegra incoscienza e a cui i buoni versi sembrano un balsamo che cura le ferite dell’anima.

S’indovina quel magma incandescente e insonne, semplice e complesso che è la vita (“C’è sempre il bianco nei miei giorni…”, Bianco), il suo mistero insoluto e a tratti lacerante (“Io vivo l’assurdo…”, Io vivo), la dolce follia, il delirio, il dolore quasi sempre inspiegabile del mondo (“Quanta sofferenza povero cuore…”, Pensieri) da cui il poeta estrae le perle incantate e sfavillanti dei suoi stupori per donarle ai contemporanei. E, nel caso di Cosimo, anche ai posteri.
Grazie “Mimmo” per i versi che ci hai lasciato, e che continuerai a donarci: poiché, chi può dirsi più generoso di un poeta?

Francesco Greco

 

Quell’estasi dei sensi nella poesia di Cosimo Russo

Minuta ed essenziale, la poesia di Cosimo Russo si abbandona tra le braccia di un tempo discorde: tanto breve e franto per l’uomo, quanto elusivo e fluente per l’arte.

Ma l’effimeratezza ontologica dell’essere non ne inficia la bellezza della sua esternazione lirica, anzi, contro ogni stereotipo di eterno, la ricolma di venerabile preziosità.

Bene ha scritto Freud che “il valore della caducità è un valore di rarità nel tempo, La limitazione della possibilità di godimento ne aumenta il suo pregio”.

I versi di Russo varcano gli opposti: eidetiche concettualizzazioni si incrociano con mimesi dai toni visionari, in una sorta di estasi dei sensi capace di sognare ciò che vede ed evocare ciò che ascolta.

Nella vaporosità di un vivere minuziosamente dilatato e oniricamente rispondente, la quotidianità indolente si scuote come per ricostruirsi e si predispone ad assumere, in anteprima, le fattezze del ricordo, del relitto memoriale.

Un passato, quindi, in molti casi modale, che convive con l’immediatezza del sentire, con la misura del palpito vitale.

La rievocazione episodica della sussistenza umana fonda la sua necessità riepilogativa  su una impostata e radicale scelta poetica, di cui fa fede la breve prosa Il sogno:

Forse la poesia nata sincera dice il vero quando setaccia la vita e aspetta il tuo inconsapevole passaggio per illuminare i luoghi in cui sei stato e salvare qualcosa di te e del ragazzo e del bambino che ti hanno preceduto”.

Ovvero, la garanzia di onestà, e in tale concetto Russo si avvicina a Saba, scatta da una specularità completa tra soggettività lirica e sorveglianza ontica.

Nella riemersione fantasmatica e vigile di un presente già passato, le parole sono infilzate da scorribande di fotogrammi impressionisti che requisiscono la nitidezza dell’immagine per restituirla atmosfera ravvolta da pensieri pazienti accodati, su un lungo raggio.

Caterina viene raccolta dal poeta in un sottobosco sociale e provinciale di malelingue e discriminazioni; riemerge nella sparuta e inquieta apparenza figurale “con carne assente/e tutta ossa ”, assumendo il ruolo di affabulante catturatrice della stuzzicata curiosaggine giovanile.

Lo scatto sprezzante, il signorile distacco dalla altrui malevolenza è evidente sin dai versi  di apertura: “Caterina /non ti curavi di chi ti considerava/ la paria della via”.

Tale austero atteggiamento finisce per rimpolpare l’anoressica parvenza di una imperturbabile superiorità, di un vivere nobilmente appartato dalle bassezze e dalla volgarità degli additamenti.

Il sintagma verbale “non ti curavi” riecheggia il dantesco monito divenuto, poi, proverbiale: ”Non ti curar di loro ma guarda e passa”.
Nella poesia di Russo i gorghi infernali sono costruzioni artificiali in cui la vita sosta per una intera esistenza: le vie e le miserie abitative da realtà toponomastiche micronizzate assumono l’importanza sinistra di una collocazione definitiva, di una dolorosa e alienante “damnatio aeterna”.

Il vociare pettegolo e segregativo, che trapela dalla irriverente e stranita personalità di Caterina, ha il peso condizionante di un giudizio universale pronunciato da una mentalità classista che biforca i buoni dai cattivi, spargendo solitudine e coercitivo isolamento.
Degna di rilievo la scelta lessicale di “paria”. Nel sistema sociale induista venivano definiti con tale lemma i “fuori casta”, gli “impuri”, altrimenti detti “intoccabili”, essendo severamente proibito, anche, solo avvicinarsi.

Il termine rappresenta la deriva razzista e intollerante dei civilizzati meccanismi aggregativi che contravvenendo a se stessi e alla loro primaria funzionalità dividono e tagliano fuori il socialmente diverso.

Eppure proprio nel tugurio domestico sovrastato da recriminazioni e condanne senza appello si apre la fascinosa parola di Caterina: “vagavi per degli antri /e confidavi /a noi fanciulli /ogni tuo segreto”.

La donna sputata fuori dalla società, sceglie non solo di defilarsi dall’accerchiamento pregiudiziale, ma di estrarre il suo” io” ignoto alla genuinità dei fanciulli che assumono la funzione sacramentale di ligi confessori che attendono e pregustano la resa privata del peccatore adulto.

Nel fremito adolescenziale il lettore può avvertire, seppure di sbieco, il malizioso interesse per la colpa, per lo scandaloso traviamento che il racconto compromettente promette di concedere. Il peccato cessa di essere bisbigliato dietro a un ligneo e oscuro profilo d inizia a rivelarsi, a dischiudersi alla molteplicità delle coscienze.
Il piccolo cenacolo di facce spalancate sulla vita, prontamente si dispone a percorrere, quasi con un tocco di invidia, i trascorsi di chi, in bocca, mastica, in virtù dei suoi anni, una storia da tramandare, da scomporre pezzo pezzo.

Ancora una volta, la religiosità di Russo preferisce alla clausura del rito la dialettica fraterna.
Il segreto pronunciato come una confidenza manifesta la sua indisponibilità al ricovero occulto dichiarandosi “renitente ad altri confessionali e a doveri domenicali”.

Come a dire, l’accoglienza e la redenzione dell’altro va ben oltre una consuetudine istituzionale o una formalità adempiuta.

Il raduno solidale del piccolo uditorio rende viva e paradossalmente carnale la partecipazione del mistero dell’uomo che calato nella fangosità della Terra si lascia intimamente scrutare, giudicare e perdonare.

In un domestico e profano raccoglimento si vive la sensazione mistica e templare di una compresenza divina, così come si appalesa nella prosa Istanti:

Ed approdo qui nel bagliore del pomeriggio ad ascoltare in un silenzio di preghiera l’ora scorrere lieve sul tavolo della cucina, raccolto in atmosfere familiari mi muovo stremato ma felice dal frigorifero al lavello come il devoto in una chiesa inondata di luce”.

Ma l’attenzione di Russo sul personaggio è totale e non ideale, non tralasciando di riportare quel vezzo di gelosia e di materialità bambina che induce Caterina a nascondere i liquori ai sgraditi parenti e a porgerli, al contrario, agli ospiti ben accetti: “tutti i liquori conservavi/celati ai tuoi parenti /e offerti a noi iniziati /catturati nella rete dei tuoi racconti”.

La profana confraternita sorbisce essenze liquorose e umane come in un tribale e circonferenziale rito iniziatico.

La poesia si inumidisce di ogni possibile elaborazione religiosa, imbastendo un sincretismo dalla asprigna vena polemica. La carrellata terminologica da “paria” a “confessionali” e “doveri domenicali” fino a “iniziati” fa affacciare il brioso e periferico episodio su una veduta antropologica ed etica illimitata.

Così, mentre la malevolenza schiva ogni possibile sfioramento emozionale, all’interno del vano cavernoso l’atmosfera è caldamente purificatrice e affiliante.

La rete ha pescato anime nuove e la conversione, alla maniera umana, ha inizio.

La pietà non viene mai forzatamente indotta attraverso circonvoluzioni vittimistiche e retoriche, ma resta calibratamente normale e disperatamente sincera.

Annalisa Nutricati


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