L’UOMO NERO: intervista a Sergio Rubini
Il frastuono del traffico capitolino disorienta e confonde; sono passati un paio di mesi, ma in qualche sala cinematografica di nicchia si proietta ancora L’uomo nero il nuovo film di Sergio Rubini, e l’unico modo per sfuggire al caos cacofonico è salire sul treno della memoria descritto emotivamente dall’eclettico regista pugliese.
Il viaggio di Gabriele Rossetti (Fabrizio Giufini) non è solo un viaggio fisico, che il protagonista compie in direzione di un piccolo paese pugliese per l’estremo saluto al padre morente, Ernesto (Sergio Rubini), ma soprattutto un viaggio nel ricordo, un ritorno all’infanzia, e al tempo di quando era bambino negli anni Sessanta.
Il piccolo Gabriele Rossetti, interpretato dal giovanissimo esordiente Guido Giaquinto, osserva la sua famiglia con una fervida immaginazione, dove la figura paterna di Ernesto, capostazione della ferrovia locale, risulta fragile nei confronti del figlio perché non riesce a raggiungere nell’arte i risultati ambiti, dimenticando le dovute attenzioni.
Le frustrazioni di Ernesto si tramutano in continue tensioni nei confronti della moglie Franca (Valeria Golino), madre e insegnante ma soprattutto donna forte e fragile, aggressiva e condiscendente, con lo sguardo sempre vigile segue ogni minimo gesto movimento del marito, del figlio, del fratello.
Il piccolo Gabriele cerca di colmare l’alienazione del padre, affezionandosi sempre più alla figura dello zio materno, Pinuccio (Riccardo Scamarcio), scanzonato giovane viveur di provincia.
Il film è un’opera corale e poetica che si caratterizza per un forte senso di amarcord, e una spicca narrazione fantasiosa e tratti commovente e riflessiva. Le dinamiche razionali della pellicola, sono affiancate da scene di surreale e scoppiettante comicità, accompagnate dalle brillanti musiche di Nicola Piovani. Nelle ultime battute la “favola retrò” si tinge di giallo, rivelando un finale insolito e dall’effetto introspettivo.
Lascia un commento