Il frantoio semi-ipogeo dei Protonobilissimo a Muro Leccese: tracce della battaglia di Lepanto
Protonobilissimo, un cognome decisamente strano, anche se si tratta di una famiglia della nobiltà meridionale…significa “il più nobile tra i nobili”. Si tratta di un “nome d’arte”, scelto dai signori di Muro Leccese per sostituire quello originale, Facepecora, decisamente poco indicato per la famiglia che ottenne nel 1438 la baronia di uno di più grandi centri di origine messapica del Salento.
Il palazzo dei Protonobilissimo domina la piazza principale del paese ed è oggi sede del museo di Borgo Terra. Alle sue spalle, adiacente ad un piccolo giardinetto pubblico che un tempo era parte integrante della dimora signorile, vi è un frantoio semi- ipogeo, fatto costruire nel 1602, così come testimonia la data posta sul portale di ingresso, per volere della medesima famiglia.
La costruzione dei frantoi ipogei o semi-ipogei (definiti anche trappeti o trappiti, in dialetto locale) era favorita rispetto alle tradizionali costruzioni per un a serie di motivi: tramite alcuni fori posti al livello del manto stradale, lungo la facciata frontale, denominati “sciave“, era possibile riversare le olive raccolte nei campi e trasportate dai carri all’interno delle vasche dove riposavano in attesa della spremitura. Inoltre la temperatura dell’ambiente (intorno ai 18-20° C) era ideale per la conservazione delle olive e dell’olio prodotto.
Oltre queste motivazioni nettamente pratiche se ne accostano delle altre di natura esclusivamente economica: costruire è molto più costoso che scavare nella morbida roccia. Per questo motivo si preferiva optare per strutture semi o totalemnte interrate invece che costruire ex novo. La numerosità dei frantoi dislocati su tutto il territorio salentino, anche parecchie unità per comune, erano in grado di soddisfare il fabbisogno della popolazione locale. Non c’è da stupirsi che molti fossero di modeste dimensioni.
Varchiamo dunque la soglia del frantoio della famiglia Protonobilissimo accompagnati da una voce che ci informa su quello che andremo a visitare. La cosa che salta subito all’occhio sono le giunzioni interne alle “sciave” tramite le qualie le olive raggiungevano direttamente in alcune vasche di contenimento. Scendiamo quindi alcuni scalini quando la nostra attenzione si sposta sulla destra e nota, in una capiente sala, una grossa macina posta vicino ad un pannello che espone al visitatore una ricostruzione grafica di come sarebbe dovuto apparire il frantoio in funzione, con il nachiro, il signore del trappeto, che dava ordini ai suoi sottoposti per una corretta lavorazione.
Scendiamo gli ultimi scalini e ci preperiamo ad affrontare un piccolo viaggio nel tempo quando la voce, la nostra guida, ci porta all’attenzione di altri due strumenti di spremitura, il torchio alla calabrese e il torchio alla genovese, impiegati all’interno dei frantoi nel XVII e XVIII secolo. Il passaggio dalla prima alla seconda tipologia torchio avvenne in maniera graduale fino ad una totale sostituzione in alcuni frantoi. Entrambe utilizzavano i fisculi, delle tasche circolari con un foro centrale, realizzate con corde di giunco intrecciate e legate all’imboccatura centrale da canapa filata. I fisculi venivano riempiti con la pasta di olive ottenuta grazie alla macina a pietra, per poi essere impilati e sottoposti all’azione del torchio.
I pensieri cominciano allora ad affollare la nostra mentre e cominciamo a intravedere una mezza dozzina di uomini che, con fare indaffarato, si spostano a destra e a manca per riempire i fisculi, mettere in moto i torchi e portare a termine il proprio lavoro, desiderosi di poter assaggiare l’olio nuovo, il primo, quello destinato ad uso alimentare, e…l’immagine scompare, qualcosa interruppe la nostra immaginazione. La voce che ci guida aggiunge, con un tono di tristezza: “gli uomini del nachiro, la figura che dirigeva un trappeto, lavoravano per la sola gloria del propio signore: loro infatti, come tutti gli altri braccianti che contribuivano alla raccolta delle olive, non potevano godere del consumo dell’olio nuovo, il quale sarebbe stato invece consumato dai nobili signori, bensì di un olio di seconda qualità, ottenuto riutilizzando i materiali di scarto dalla prima produzione. Quella del nachiro e dei suoi uomini era una vita di intensa dedizione. Durante il periodo della raccolta e della spremitura delle olive non si abbandonavano mai i trappeti, mentre si era invece costretti a lasciare le proprie famiglie e chiudersi con i propri “colleghi” all’interno di quella struttura scavata nella roccia, al meno fino a quando la produzione dell’olio non fosse terminata.“
Ed ecco infatti che ci vengono mostrate le cellette per gli asini, animali utilizzati per muovere la grande ruota di pietra della pressa e quelle utilizzate invece per gli uomini, bastava un pò di paglia per creare un giaciglio sul quale riposare. Ma è proprio in prossimità di queste cellette che qualcosa attira la nostra attenzione, dei graffiti, semplici incisioni effettuate con uno strumento appuntito sulla nuda roccia. Raffigurano delle navi, dei soldati a cavallo, si intravede la sagoma di una città e un nome:”Missinia“. Ed ecco che le barche cominciano a muoversi, urla di uomini incitano alla battaglia…”potrebbe trattarsi della battaglia di Lepanto“, aggiunge la voce della nostra guida, “quando gli uomini non lavoravano all’interno dei frantoi potevano essere impegnati nella pesca per conto dei propri signori, esiste una parola dialettale, infatti, <<iurma>>, la quale indica sia l’equipaggio di una nave che i membri che lavorano all’interno dei frantoi“.
La presenza della città di Messina, la base militare dell’armata Cristiana durante la battaglia di Lepanto, potrebbe far presupporre che uno o più elementi delle iurma avesse preso parte ad una delle più importanti battaglie della cristianità.
La battaglia di Lepanto ha rappresentato decisamente un evento epocale, una sonora sconfitta dell’esercito ottomano da una flotta cristiana, denominata la Lega Santa, costituita dalle forze Navali di Venezia, Spagna, Napoli, Sicilia, Cavalieri di Malta, dal Ducato di Savoia e di Urbino e dal Gran Ducato di Toscana. La battaglia si consumò il 7 ottobre del 1571.
Alcune delle scene che hanno caratterizzato la battaglia sono state incise proprio qui, in un frantoio oleario di Muro Leccese. Questi graffiti potrebbero anche non avere senso, e simboleggiare semplicemente una sorta di celebrazione per un evento che si è ritenuto molto importante invece che testimoniare la presenza salentina in battaglia, cosa che riempirebbe sicuramente di maggior orgoglio i cittadini di questo piccolo centro. Per il momento, in attesa di ulteriori studi possiamo annoverarlo solo tra le ipotesi.
Alcuni studiosi ritengono che anche le figure di uomini scolpite sulla facciata della Basilica di Santa Croce a Lecce e che ne sorreggono la balaustra possano in realtà rappresentare alcuni prigioneri della flotta ottomana catturati durante la battaglia di Lepanto dalla flotta della Lega Santa e posti, immobili, a sorreggere per i secoli a venire un peso troppo grande per le loro schiene. Le figure zoomorfe, invece, rappresenterebbero allegoricamente le flotte critstiane che hanno contribuito alla vittoria. Tra l’armata ci sarebbe stato anche un contingente del conte d’Acquaviva di Nardò.
La parentesi si chiude, ritorniamo tra le mura del frantoio dei Protonobilissimo …”la visita è conclusa“, ci informa la nostra guida. Usciamo soddisfatti da questo luogo, con la consapevolezza di aver vissuto, anche se solo con l’immaginazione, la storia che hanno conosciuto i nostri avi e che è stata impressa, non si quando, da chi e perchè, sulle pareti di questo frantoio con poche semplici linee.
Marco Piccinni