Santa Maria delle Cerrate
Percorrendo la strada provinciale Squinzano-Casalabate a pochi chilometri a nord di Lecce che dall’entroterra del territorio salentino porta al mare Adriatico, ed è là, in aperta campagna che tra ulivi secolari e infinti muretti a secco sorge l’abbazia di Santa Maria delle Cerrate, detta anche Cervate, de Caritate, di Cherate.
In seguito alle persecuzioni iconoclaste dell’Oriente cristiano del X secolo d.C., i monaci Calogero-basiliani si erano rifugiati nell’Italia meridionale.
La storia della fondazione abbaziale è intrisa nella leggenda, secondo la quale, durante una battuta di caccia, il re Tancredi di Lecce (m. 1194 della casa d’Altavilla, re di Sicilia (1189-1194), figlio naturale di Ruggero, duca di Puglia, e di Emma dei conti di Lecce) si trovò davanti ad una cerbiatta, e volendola catturare, la inseguì fino alla sua tana, dove vi trovò un’immagine della Madonna, Tancredi si inchinò. Il re quindi, decise di costruire il complesso monastico, affidandolo in gestione ai monaci basiliani, un ordine che praticava il culto greco.
La vicenda storica è controversa, dato che nei pochi documenti che citano indirettamente il monastero, si avanza l’ipotesi che la sua fondazione sia avvenuta nel primo trentennio del XII secolo, e dunque prima dell’esistenza del conte [1].
Il nome dell’edificio si trova registrato su due documenti, risalenti alla metà del secolo. Il primo riguarda la donazione di terre insieme al casale di Cisternino, al monastero delle monache benedettine di Lecce. Le terre confinavano con la proprietà di Cerrate: il documento è del 1133 perché attribuito al conte Accardo. Il secondo è un manoscritto greco, segnato Vaticano 1221 e datato al 1154: ha come oggetto il commento di Teofilatto di Bulgaria agli Evangelisti.
Il documento risulta copiato per conto dell’egumeno di Cerrate di nome Paolo, che forse sarebbe stato il primo abate del monastero italo-greco. Da qualche documento dei secoli successivi emergono altri nomi di egumeni. L’ultimo di essi sarebbe stato, nei primi decenni del XV secolo, un Angelo De Albino, prelato proposto a nomina da Maria D’Enghien di Lecce per il fatto che il convento era a corto di vocazioni. [2]
Lo stile architettonico è di ascendenza romanica, e risale al XII secolo, l’antico complesso prevedeva la Chiesa, il chiostro, il monastero, la biblioteca, uno scriptorium, i forni, il frantoio, le stalle e un immenso giardino.
La Chiesa è costeggiata da un elegantissimo chiostro con colonne sulle quali si innestano capitelli dalle differenti lavorazioni; la facciata presenta un portale scolpito semi-aggettante su cui è raffigurata l’Annunciazione. L’interno è a tre navate, con tre absidi; l’altare maggiore è sormontato da un baldacchino sorretto da quattro colonne di marmo. Inizialmente doveva essere tutta affrescata, ma di queste scene pittoriche è rimasto ben poco, perché dopo che nel XIII secolo i monaci Basiliani abbandonarono il monastero all’incuria del tempo. Durante il pontificato di Clemente VII, l’ordine dei basiliani scomparve, e con una lettera data 1531 il papa Medici lo cedeva con le proprie dipendenze all’Ospedale degli Incurabili di Napoli.
Nel 1642 fu in parte restaurata, e successivamente lasciata nuovamente in disuso, fino a quando nel 1711 il saccheggio dei turchi distrusse il complesso definitivamente. Negl’anni sessanta del novecento fu acquistata dall’Amministrazione della Provincia di Lecce, che ha creato nei locali annessi il “Museo delle tradizioni popolari”.[3]
Durante i lavori di restauro sono stati rimossi gli affreschi degli altari laterali raffiguranti “ Il transito della Madonna”, “ L’Annunciazione” e “Il re Tancredi che uccide il drago” perché sono stati trovati al di sotto di essi altri affreschi, anche se molto danneggiati, che confermerebbero come la chiesa, alle sue origini doveva essere tutta affrescata[4]. Gli affreschi rimossi e debitamente restaurati sono esposti nell’attiguo museo[5].
Giuseppe Arnesano
BIBLIOGRAFIA
[1] Carducci L., (a cura di), Storia del Salento,Galatina, Congedo Editore, 1993.
[2] Ibidem.
[3] Da sito: http://www.japigia.com/
[4] Messito ., Frisenna R., (a cura di), Squinzano di tutto un po’,Trepuzzi, 1999.
[5] Ibidem.