Il Tarantolismo Pugliese di Ignazio Carrieri
L’alibi provvidenziale è quello di identificarsi con il ragno. “La tarantata si fa ragno, diventa il ragno che è in lei: il suo pensiero si muta in ritmo puro e nel movimento quasi meccanico sorgono figure di liberazione travolte però ancora da ombre disperate. La donna in piedi lotta con la taranta, immaginando di calpestarla e di ucciderla con il piede che batte la danza” [1]
Il Tarantismo, strano ed emblematico fenomeno che per secoli ha indotto uomini e fanciulle a danzare un ballo dai ritmi dettati da una melodia, una sola tra decine, in grado di “attivare“ l’esorcismo coreutico-musicale sotto l’egida di San Paolo. Ciò che per lungo tempo è stata definita una forma di possessione, comune a quella di molte altre culture nell’area del Mediterraneo, comincia ad assumere già dal ‘700 una realtà inquadrabile con una cartella clinica, una forma di isteria. Il popolo è scettico, la comunità scientifica divisa. Se Nicola Caputi nel 1741, con il suo De Tarantulae Anatome et Morsu, ribadiva l’efficacia della danza come cura possibile contro il fenomeno dei “morsi e rimorsi”, criticando aspramente quanti ritenevano il contrario pur non avendo mai assistito direttamente al fenomeno, nel 1893, invece, un altro medico di Grottaglie, Ignazio Carrieri, tornava a sostenere la tesi dell’isteria come unica spiegazione contro il secolare malanno, anticipando di fatto le conclusioni del De Martino nella campagna del 1959.
La laurea in medicina, conseguita a 23 anni, e un bagaglio di esperienze vissute sul campo a diretto contatto con i più poveri e deboli, furono degli ingredienti più che sufficienti per far maturare la sua opera d’esordio Il Tarantolismo Pugliese. Un vero e proprio successo che di fatto andava a riempire una lacuna imperdonabile nella medicina della prestigiosa scuola napoletana, per la spiegazione di un fenomeno, pardon, patologia, che ha turbato le menti di illustri studiosi e scienziati, tra cui lo stesso Leonardo da Vinci, spesso denigrato o ritenuto una scusa alla concupiscenza femminile. “Pubblico questo lavoro senza la pretesa di essere andato in fondo all’ardua questione del Tarantolismo, un tempo molto dibattuta ed oggidì del tutto negeltta per la smania di un malinteso e spesso esagerato positivismo, che nella seconda metà di questo secolo ha invaso le lettere, le scienze, le arti”.[2]
Nonostante fosse intriso del folclore dell’antica provincia di Terra d’Otranto, lo studio del Carrieri rimane critico e scrupoloso. Ribadisce una netta separazione tra nevrosi e psicosi, per distinguere quanti dal ragno venivano morsi per davvero, da quelli che invece lo ritenevano solo un evento plausibile ma che in realtà non si era mai verificato. Il veleno del latrodectus (il ragno che prende il posto della ben più generica taranta) diviene il colpevole del tarantismo, quello “vero”, assai più raro del pregiudizio e del contagio morale che irrorano quella “psicopatia ritenuta volgarmente Tarantolismo”. [1]
“Mi studierò di delineare brevemente i periodi storici di questa malattia, a cominciare da Strabone, il quale visse mezzo secolo prima della venuta di Cristo e fu il primo, dopo quanto ne scrissero Galeno, Aristotele, Plinio ed altri molti a descriverla come già nota nelle regioni del Caucaso ed in Albania, facendo menzione della musica e della danze ivi adoperate come mezzo curativo.” [2]
Uno studio cronologico che il Carrieri ripercorre usando magistralmente le già note doti di letterato e giornalista fecondo. Un’analisi proficua ma non priva di insidie. Il veleno del Tarantolismo sembra essere entrato nella testa del pugliese prima che nel suo sangue. Ogni ragno, ogni animale potenzialmente dotato di veleno, diviene il capo espiatorio di questo “stato dell’anima”, come un legame invisibile che vincola il salentino alla sua terra, un patto siglato con il diavolo dal quale sembra impossibile svincolarsi.
“L’anima del pugliese (com’ebbi a dimostrare in altra occasione) è essenzialmente musicale: la musica pulsa nel nostro sangue e vibra nelle più intime latebre del nostro essere”.[2] Ed è proprio la Puglia, soprattutto nel leccese, dove questa malattia sembra essere stata coltivata più che in qualsiasi altro territorio.
La danza vista in ultima istanza come eccitamento dei centri nervosi motori, la cui cura era non dissimile da quella delle altre ferite da morso. Il ballo diviene una potenziale conseguenza, non più la cura. E benché Charcot riteneva fondamentale l’utilizzo della musica come palliativo per molte patologie, per Carrieri sembra non possa svolgere la stessa funzione per il tarantolismo. Non più misticismo dunque, ma semplice patologia.
Marco Piccinni
[1] [Salvatore Quasimodo, in commento al film documentario di Gianfranco Mingozzi “La taranta”, 1961]
[2] Il Tarantolismo pugliese, Ignazio Carrieri
[3] [Discorso inaugurale detto dal Cav. Uff. Dott. Ignazio Carrieri in “Circolo Ennio. Statuto sociale e Discorso Inaugurale”, Taranto, Stabilimento tipografico Pappacena, 1991]
BIBLIOGRAFIA:
L’ombra della vedova nera, il tarantolismo pugliese di Ignazio Carrieri nel 120° anniversario – a cura di Floriano Motolese – Edizioni dell’iride (2012)
Concordo pienamente. Rilevavo questa tesi nel mio film documentario: Un ritmo per l’anima”:
http://www.youtube.com/watch?v=igUTPVPdA-E
Il Salento è da sempre la terra endemica della taranta. Non dimentichiamo, però, che il tarantismo ha avuto un’ampia circolazione ben oltre l’area salentina, per esempio in Spagna.