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Salento, ecco chi gli fece le scarpe

Ascesa e declino del calzaturiero made in Salento. Da Filanto a Leo Shoes, la scarpa della Puglia meridionale ha oltre 50 anni. Sufficienti a tracciare un piccolo, veloce bilancio. Tutto inizia nel distretto industriale di Casarano, a opera di Antonio Filograna, noto come “Mesciu Ucciu”, il ciabattino fattosi imprenditore.

Da ragazzo – prendiamo da Wikipedia – alterna la scuola con l’apprendistato presso un calzaturificio della sua città, Casarano. A 17 anni emigra a Milano dove l’industria della scarpa è presente con aziende di rilievo e lavora come operaio specializzato. Dopo qualche tempo rientra in città con la convinzione di poter realizzare una moderna industria calzaturiera. Nel 1948 fonda la sua prima azienda: un piccolo laboratorio artigianale in un monolocale, a conduzione esclusivamente famigliare, e da questo momento in poi crescerà incessantemente fino a diventare leader del settore in Europa. Inizialmente Filograna assolveva tutte le funzioni aziendali, dalla progettazione alla produzione e vendita. In seguito si avvarrà della collaborazione di oltre 3.000 dipendenti, ai quali se ne aggiungono diverse centinaia negli altri paesi in cui la Filanto spa (nata intorno al 1968) ha allargato la propria base produttiva, realizzando la produzione giornaliera di 55.000 paia di scarpe, oltre a un elevatissimo numero di parti staccate delle stesse, fino a toccare un fatturato di 325 miliardi, del quale il 92% all’esportazione. Accanto a Filanto (che nei Settanta apre anche a Patù chiamandosi “Panfil Winnetou”, con circa 1500 addetti, dopo che Alessano ha respinto le avances dell’industriale), crescono, passando da fabbrichette a loghi di successo, altre grosse imprese, come la “De Rocco”, “Adelchi” e altri. Il territorio mura radicalmente fisionomia: l’economia da rurale si fa proto-industriale. Migliaia di posti di lavoro diretti (negli opifici) e indiretti, attraverso la cucitura delle tomaie, lavoro esclusivamente femminile e infantile. Il Salento degli agrari e le baronie predatorie conosce per la prima volta la dialettica padrone-operaio con le prime cellule sindacali e le relazioni industriali. Il sindacato entra fra suole e colle, un fatto blasfemo per gli imprenditori di prima generazione che applicano il sistema della doppia busta-paga. Gli operai sindacalizzati subiscono ostracismi d’ogni sorta, incluso in confinamento in manovie-ghetto, come fossero untori. Si aprì la stagione delle vertenze. I sindacati prima sostennero i lavoratori, poi diventarono “gialli”, consociativi, un po’ come oggi Landini e dintorni. Fra gli Ottanta e i Novanta, i calzaturieri delocalizzarono nell’Est europeo dove il costo del lavoro era più basso (ma pure la professionalità). Il territorio si desertificò e tornò alla povertà di mezzo secolo prima. I paesi si svuotarono. Lo scrittore Vittorio Buccarello nei Settanta tornò da un’esperienza di emigrazione in Svizzera e si impiegò alla “De Rocco”, che aveva aperto un opificio nel suo paese, Castrignano del Capo. Oggi è la memoria storica di quel periodo. Tra pubblico e privato, lo ricostruiamo col suo racconto (è anche nel romanzo “Camminando sulle foglie”, 2021).

Filanto. Fonte: leccesette.it


Quando arrivò la “De Rocco”?

“Era l’inizio del 1976, Antonio De Rocco, figlio del già industriale Carmelo, titolare della fabbrica DERCA di Casarano con circa 200 operai, affittò un locale qui a Castrignano: un vecchio magazzino della lavorazione del tabacco. Assunse centinaia di operai quasi tutti del posto, in gran parte contadini, artigiani e tanti giovani”.

C’era anche lei?

“Rimpatriato da più di un anno dalla Svizzera, ero nell’artigianato come muratore, ma decisi di sospendere la mia attività per essere assunto come operaio, pensando di scegliere un lavoro tranquillo, senza responsabilità”.

Che tempi erano dall’aspetto economico e produttivo?

“Erano gli anni del boom nel sud Salento, che prima arrancava nella sopravvivenza attraverso l’agricoltura, con le coltivazioni di tabacco, pomodori, patate, cereali.

Con l’emigrazione di massa verso Belgio, Francia, Svizzera, Germania, etc. la qualità della vita era migliorata, era cresciuto il lavoro nell’edilizia che trascinava il settore artigianale, gran parte nell’abusivismo”.

Poi arrivarono anche le tomaie nelle case…

“Da un giorno all’altro sparì la disoccupazione, le fabbriche decentravano il lavoro anche nelle case e le famiglie. Ogni mattina passavano i furgoncini carichi di tomaie, che distribuivano, fornite di agoni e filo, per farle cucire. In quasi tutte le case se ne vedevano a mucchi e tutti si davano da fare, incallendosi le mani a furia di tirare forte il filo di spago: se non erano cucite perfettamente le riportavano indietro”.

Donne e bambini a cucire tomaie tutto il giorno…

“Occorrevano 5 o 6 ore di lavoro per finire una serie di 10 paia di tomaie e guadagnare qualche migliaio di lire. Ma i soldi facevano gola a tutti e tutti le cucivano: uomini, donne, giovani e anziane, in ogni momento della giornata, sia le sere di inverno davanti al camino che d’estate al fresco in compagnia e conversando. I ragazzini già a 8 anni, invece di giocare, dopo aver fatto i compiti, avevano le loro tomaie da cucire con le loro tenere mani”.

Quindi si tornava dalla Svizzera per impiegarsi nei calzaturifici?

“Tanti emigranti tornavano ai paesi d’origine, ma oltre alle fabbriche di scarpe si allargava il settore dell’abbigliamento, dai calzini ai jeans alle cravatte, che le grandi marche davano ai piccoli imprenditori: diverse case nascondevano piccole fabbriche a conduzione famigliare”.

Torniamo a Castrignano e la De Rocco…

“Sfornava migliaia di paia di scarpe al giorno, aumentando sempre la manodopera e aprendo ancora un’altra fabbrica per la produzione di ogni tipo di suole che servivano per il montaggio delle scarpe. In pochi anni, solo a Castrignano, occupava circa 300 operai, ma intanto aveva costruito a Casarano un grande e moderno opificio e il suo intento era di unificare le fabbriche che nel frattempo aveva creato”.

Quindi voleva delocalizzare?

“Tra la fine del 1978 e l’inizio 1979, senza nessun preavviso, ci accorgemmo che man mano stava trasferendo operai e macchine a Casarano. Questo ci mise in allarme, eravamo tutti orgogliosi di quella fabbrica e non volevamo perderla, per lo più in silenzio. Anzi, speravamo che De Rocco si sarebbe prodigato a migliorarne la consistenza: si diceva che voleva acquistare un suolo per un opificio più grande”.

Cosi decideste di scendere in lotta…

“Un gruppo di noi decise di fare qualcosa che potesse impedire il trasferimento che vanificava tutte le nostre speranze, facendo morire la fabbrica: per noi era importante per il futuro della nostra comunità”.

C’erano i sindacati sul territorio?

“Nei nostri paesi esistevano solo i patronati e a loro andammo chiedere cosa potevamo fare, ma nessuno ci diede indicazioni: dissero che non era un loro compito.

L’unico che ci dette ascolto fu Virgilio Panzera di Giuliano di Lecce. Anche lui era solo un consulente di patronato, non un sindacalista, ma si impegnò a metterci in contatto con la CGIL di Lecce, che accolse la nostra richiesta.

La sera dopo vennero due sindacalisti per una riunione, eravamo un pugno di appena 8 o 9 operai: ricordo che si svolse in una stanza del Castello di Giuliano. La nostra iniziativa era un’impresa difficile, un salto nel buio senza sapere dove potevamo cadere, nessuno ci dava un minimo di garanzia di riuscita, i sindacati erano disposti a sostenere le nostre richieste ma senza garantire nulla, tutto dipendeva dalla quantità di operai disposti a unirsi nella battaglia, e dalla resistenza che saremmo riusciti ad avere di fronte alla reazione di De Rocco”.

La dialettica azienda-operai però era aperta…

“Nei primi giorni cercammo di tenere tutto nascosto, invitando altri lavoratori a unirsi a noi e iscriversi al sindacato: raggiungemmo così un gruppo di circa 25 operai. Ma la notizia non tardò ad arrivare al titolare, che subito si attivò per spegnere la protesta. Mosse prima i dirigenti per dissuaderci, e già alcuni di noi cominciavano a ritirarsi. Poi utilizzò personaggi di un certo peso, che potevano influenzarci in quanto persone di rispetto. Alla fine una quindicina di noi resistettero, seppure con la paura. Quando De Rocco esaurì la pazienza ci inviò una lettera di licenziamento”.

Lotta dura senza paura, poi cosa accadde?

“La lettera mirava a toglierci di torno, e invece fu benzina sul fuoco: ci compattò e dette ulteriore spinta al nostro timido motore di lotta che tutti credevano inutile. A quel punto erano due le strade da percorrere: continuare la lotta o arrenderci perdendo lavoro e speranze e subendo un’umiliazione dinanzi al paese. Si decise di andare avanti con la lotta, con più forza, qualunque fosse stata la conclusione. Eravamo pochi e insicuri, alcuni li avevamo persi per strada, ma ormai eravamo con le spalle al muro e non c’era altra scelta se non quella di lottare uniti col supporto del sindacato”.

La lotta era solo a livello sindacale?

“Sindacale prima e legale poi. Oltre ai giudizi negativi del paese, eravamo incoraggiati da alcuni politici locali, soprattutto da un esponente attivo della segreteria nazionale del PSI, Enzo Pirelli, che condivideva la nostra lotta. Ci diceva che era importante resistere, anche se per un solo minuto in più del datore di lavoro e avremmo vinto. Era anche assessore del Comune, l’amministrazione era guidata dal PSI, sindaco era il dottore Elio Ivagnes e ovviamente anche loro, per motivi di campanilismo, erano interessati a che la fabbrica restasse aperta”.

Quindi lo scontro col padrone continuò…

“Ci furono molte riunioni, sia con i rappresentanti sindacali che con personaggi istituzionali e giornalisti: una lotta su diversi fronti, con presìdi e manifestazioni, occupazione della fabbrica e del Municipio. Furono mobilitate forze politiche e sindacali, soprattutto di sinistra: Parlamentari, Senatori e personaggi delle istituzioni. Anche il Vescovo della Diocesi di Ugento-S. Maria di Leuca, S.E. Mons. Michele Mincuzzi, si mosse in nostro favore e partecipò a un convegno dal titolo Quale futuro per il Basso Salento, lanciando un appello: SALENTO ALZATI E CAMMINA. Si svolse nel locale dell’ex cinema Aurora, che si riempì di gente, c’erano anche i sindaci dei centri limitrofi. Bloccammo il paese e numerosi furono gli incontri a Lecce con De Rocco negli uffici provinciali del lavoro e in Prefettura. Ci furono comizi del sindacato, sindaco e parlamentari”.

De Rocco si moderò?

“No, fu irremovibile, ma la lotta andava avanti, neanche noi mollavamo. Intanto trasferì gli operai rimasti a Casarano e le due fabbriche di qui rimasero ferme a causa dei nostri presìdi”.

Brutto segnale…

“Anche per me: mi sentivo investito di una responsabilità molto più grande delle mie capacità. Mi sembrava che non ce la potessimo fare e che ne andasse di mezzo l’orgoglio mio e dei colleghi. D’altronde, non potevamo neanche mollare: ormai era una strada obbligata, arrendersi significava che ci avrebbero marchiati come presuntuosi per tutta la vita con l’impossibilità di trovare ancora lavoro.

Non potevo mollare proprio io: su di me e Michele Cassiano Ferilli pesava la gran parte della lotta e con grande pena dovevo trascurare le mie cose famigliari”.

Ricorda quanti eravate?

“Oltre a me e Cassiano, Francesco Raho, Piero Petese, Andrea D’Amico, Peppino Paladini, Antonio Ivagnes, Alfredo Donnicola, Moscardo De Giorgi, Franco Pirelli, Salvatore Mancarella, Damiano Schirinzi, Franco Pizzolante, Luigi Pizzolante, Antonio Pizzolante, Antonio Trane, Pietro De Nuccio. Compresi quelli che lavoravano al suolificio che con la chiusura si erano aggiunti a noi, ma alcuni non li ricordo e altri non ci sono più”.

Formidabile quel ‘79, poi quali furono gli sviluppi?

“Visto che nessuno mollava, si dovette esprimere la Pretura di Alessano, dove avevamo fatto ricorso. Ormai tutte le nostre speranze poggiavano proprio su quel giudizio che aspettammo con ansia, sperando in un esito positivo e definitivo. Il verdetto arrivò, portandoci tanta gioia: ci sembrò di aver vinto le Olimpiadi. La sentenza condannava De Rocco ad annullare i licenziamenti, far rientrare tutti i lavoratori e ripristinare tutto come prima. Fu costretto a riassumerci e riaprire nuovamente la fabbrica”.

Vittoria su tutti i fronti, quindi…

“Qualcosa di strano però continuava ad accadere. Il titolare ci aveva riassunti, però non ci dava lavoro e passavamo le giornate senza far niente, anche se eravamo retribuiti regolarmente come tutti gli altri. L’andazzo durò diversi mesi: andavamo tutti i giorni in fabbrica, passavamo il tempo giocando a carte e chiacchierando, con la noia addosso e i nervi a fior di pelle, rischiando di litigare tra di noi. Finché un giorno chiedemmo un colloquio col titolare, e ci fu concesso”.

Faccia a faccia padrone-lavoratori…

“Ci recammo nel suo ufficio a Casarano e guardandolo dritto negli occhi gli chiedemmo di mandarci il lavoro, perché noi volevamo renderci utili, ribadendogli, tra l’altro, che mai avremmo mollato la nostra battaglia, quindi, quello che avrebbe perso sarebbe stato sempre lui”.

Cedette?

“Ci rispose con dei sorrisini e qualche battuta ironica, ma ci fece capire che avrebbe provveduto quanto prima a mandarci il lavoro; e in effetti, dopo pochi giorni, cominciarono ad arrivare gradualmente i materiali occorrenti per lavorare. Fu così che si rimise ancora in funzione. Lavorammo per più di un anno, era diventata un’altra volta una fabbrica vera, con uffici e ragionieri, ma restava distaccata dall’opificio più grande. Finché non si acquietò tutto, quando il sindacato entrò anche nel calzaturificio di Casarano e di conseguenza non serviva più tenerci staccati dagli altri lavoratori. Fummo così trasferiti pure noi, tutti nella stessa fabbrica”.

Un fatto storico?

“La prima lotta per i diritti dei lavoratori nel sud Salento, fatta proprio da noi a Castrignano del Capo, nel calzaturificio De Rocco. Ricordo che oltre a lottare contro il datore di lavoro, eravamo costretti a sopportare anche la contrarietà di tutta la comunità e dei paesi limitrofi. Secondo loro eravamo ormai spacciati per tutta la vita, difficilmente saremmo stati riassunti da qualche altro imprenditore, non avremmo lavorato più. Il sindacato qui non si era mai visto in una lotta collettiva, dura e resistente fino alla fine. Neanche a Casarano e Patù, dove dettava legge la grande Filanto e nelle tante altre aziende calzaturiere. Il sindacato con la nostra vittoria ha potuto, in seguito, mettere piede in qualche altra fabbrica del basso Salento. Infatti, dopo qualche anno, anche a Patù alcune decine di operai tentarono di iscriversi al sindacato, ma furono stroncati e si cancellarono quasi tutti. Rimase iscritta solo la rappresentante con altri due, che furono licenziati. Anche loro andarono in Pretura, che sentenziò per la riassunzione, ma mi sembra che Filograna non rispettò la sentenza”.

Poi le scarpe entrarono in crisi, cosa successe?

“Si intravvedeva lo spauracchio della cassa integrazione e perfino la Filanto dovette adeguarsi interrompendo il comportamento ricattatorio verso i lavoratori e la cattiva abitudine della doppia busta paga con cui sottraeva i soldi dagli stipendi ai lavoratori, facendoli firmare una somma superiore a quella che in realtà percepivano, che era di molto inferiore, intascandosi un sacco di denaro a nero, che figurava pagato ai lavoratori”.

Come funzionava la busta-paga?

“Il metodo della doppia busta paga era applicato in tutte le fabbriche che operavano su questo territorio, era una manna per i datori di lavoro. Decurtavano circa un terzo di stipendio su ogni dipendente, facendolo però firmare di aver percepito la paga intera secondo il contratto nazionale. Con questo sistema il reddito dei lavoratori figurava un terzo più alto di quanto effettivamente aveva percepito, mentre il datore di lavoro incassava una marea di soldi in base a quanti dipendenti aveva a carico, facendo figurare questi soldi decurtati come se li avesse cacciati anziché intascati, caricando l’Irpef sui lavoratori e riducendosi le proprie tasse, incassando in nero, somme di denaro incalcolabili ogni mese. Tutti erano consapevoli di ciò e tutti dovevano accettare, perché nonostante la riduzione, era comunque un buon mensile fisso, che per noi del basso Salento era una sicurezza mai avuta prima, abituati a lavorare nelle campagne o con i maestri nell’artigianato e in giornate sporadiche a nero e con paghe minime. Oppure dover emigrare all’estero. Perciò, i titolari queste fabbriche erano visti come benefattori benedetti come fossero dei Santi”.

Che rapporto c’era fra imprenditori e politici?

“Gli imprenditori facevano gola a tutti i politici della zona, reciprocamente si scambiavano cortesie e favori. Sindaci, Parlamentari, forze dell’ordine e tanti altri che avevano responsabilità istituzionali, sapevano ma tacevano guardando dall’altra parte. I politici si erano trasformati in una sorta di caporali, promettevano posti di lavoro, in particolare durante le campagne elettorali, a chi si assoggettava a loro, a loro volta, li raccomandavano ai titolari delle fabbriche facendone assumere alcuni, che facevano da esca a un numero molto superiore di richieste. Per un’assunzione, per altri 50 rimanevano solo promesse date come certezze, in cambio del voto che comprendeva tutti i famigliari. Alcuni emigrati venivano invitati a rientrare in paese con la promessa dell’assunzione. Ricordo un mio parente che, stimolato da una promessa certa di rimpatriare con la famiglia e tutto quello che possedeva dopo molti anni in Svizzera, attese diversi mesi con la speranza che fosse esaudita la promessa, ma per la disperazione dovette rifare i bagagli e con la famiglia tornarsene dove era prima. Lì non trovò più la situazione che aveva lasciato e sentendosi un fallito, ritornò al paese di origine e la fece finita appendendosi a un albero.

Situazioni più o meno simili succedevano di continuo. Era tanta la gente emigrata che desiderava rimpatriare e vivere nella casa fatta con anni di sacrificio”.

Per un giovane era più facile essere assunto?

“Principalmente i giovani di 15–16 anni, dopo che avevano finito la scuola media. Era più facile gestirli, per loro il posto di lavoro era come uno svago e inoltre avevano anche uno stipendio, quando invece nei tempi precedenti i giovani che andavano dai maestri per imparare i mestieri non percepivano nulla o qualche miseria casualmente. Quindi si verificava per quella generazione, la bella vita, lavoro fisso soldi e libertà al diritto di divertimento senza preoccupazioni.Erano anni che sembrava tutto andasse bene”.

C’era ostilità fra gli imprenditori calzaturieri?

“De Rocco stava crescendo di grandezza e importanza, era diventato il secondo dopo Filanto. E ciò non era molto gradito ad Antonio Filograna che incominciava a sentirsi pestare i piedi come se fosse un intralcio al suo comportamento di profitto sui lavoratori, in quanto De Rocco aveva accettato sia il sindacato in fabbrica che i contratti nazionali come qualsiasi industria che si rispetti.

Filanto invece continuava col solito metodo di sempre e il sindacato non aveva possibilità di accedere. Pareva però che De Rocco avesse delle aspirazioni che guardavano lontano, non solo per lui ma anche per questo angolo del sud Salento, E quindi si dava da fare per migliorare oltre al prodotto anche la qualità, investendo e indebitandosi con le banche e i fornitori delle materie prime. Si pensa che Filanto, avendo scoperto questo lato debole di De Rocco, si sarebbe mosso per aggravare ancora la situazione, agendo sulle banche affinché queste scegliessero o lui o il De Rocco. E pare che le banche decisero di non dare più credito ad Antonio De Rocco che, nonostante avesse delle ottime commesse, trovò tutti i rubinetti chiusi per poter rispettare i contratti fatti”.

Così si rivolse ai suoi operai, chiedendo sacrifici…

“L’unica possibilità eravamo noi, e infatti ci chiese di impegnarci con una consistente somma attraverso delle obbligazioni nell’azienda. Fu una richiesta che dovevamo firmare, e se pur con paura e sospetto, solo una piccola parte non aderì, mentre tutti gli altri firmammo per la possibilità di salvare la fabbrica dal fallimento. Ma, neanche questa operazione servì per salvare De Rocco e la fabbrica, in quanto figurava illegittima e non fu accettata dagli istituti di credito. E fu così che 1988 la De Rocco dovette chiudere i battenti della sua modernissima fabbrica, dicendo addio ai sogni e alle speranze, costretto al fallimento dopo 12 anni di attività prosperosa”.

Tutti a casa?

“In cassa integrazione 5 anni circa poi assunti come L.S.U. (lavoratori socialmente utili). Da lì, io e tanti altri, i più anziani, avendo raggiunto l’età, andammo in pensione.

L’Azienda finì col sequestro della fabbrica, i macchinari e tutto quanto. De Rocco ormai dentro i meccanismi del mercato delle scarpe, continuò ad appoggiare i suoi collaboratori che aprirono aziende sparse nei paesi vicini”.

E Filanto?

Anche a Patù le cose cominciavano a cambiare e pure per Filograna era giunta l’ora di aver bisogno del sindacato. A causa dei finanziamenti ottenuti aveva l’obbligo di farlo funzionare almeno per 20 anni e quindi guarda caso proprio alla scadenza di tale periodo, anche a Patù cominciavano a chiudere i battenti mandando i lavoratori in cig. Ora quella costruzione sta cadendo a pezzi come tanti altre cattedrali nel deserto… In seguito, Filograna non si fece scappare la ghiotta opportunità di trasferire il reparto di Patù in Albania. Si spegneva cosi quel barlume di speranza per il sud Salento, durato una ventina di anni per poi precipitare di nuovo nel buio”.

Continuò a stare nel sindacato?

“Divenni segretario territoriale della FILTEA/CGIL e successivamente segretario provinciale. Sulla scia delle lotte mi ero procurato una certa ammirazione. Ma succedeva che più mi addentravo nel sindacato, più mi accorgevo degli intrallazzi all’interno che mi creavano dubbi. Constatavo infatti che vi era più interesse per la politica che per i bisogni dei lavoratori, in particolar modo nella CGIL, che era supportata dai due partiti politici, PCI e PSI, che pur se tutt’e due di sinistra, spesso erano in conflitto. Ma lo stesso era anche nelle altre Confederazioni, pure con diversi partiti al loro interno. Nonostante tutto cercavo nel mio piccolo di dare un contributo occupandomi di politica anche nel mio paese. Ma per me, un conto era la politica e un altro la rappresentanza sindacale, sia sul posto di lavoro che nelle sedi istituzionali. Spesso mi trovavo a contraddire quello che essi decidevano, cercavo a modo mio di far valere gli interessi dei lavoratori e del lavoro. Una volta partecipai a un congresso regionale della CGIL a Bari. All’epoca Massimo D’Alema era segretario regionale del PCI e in quell’occasione sedeva al tavolo della presidenza. Decisi di scrivere un intervento secondo il mio pensiero, grezzo ma appassionato, che però non seguiva la linea del sindacato ma la mia e quella dei lavoratori. Qualcuno apprezzò complimentandosi, ma sapevo già che non sarebbe stato gradito dai vertici. Ovviamente, diedi l’impressione che nel sindacato io non ci potevo stare, non ero il tipo di persona che poteva essere trascinata negli intrighi che solo loro sapevano. Cominciai a fare marcia indietro, finché fui messo da parte. Però, fu meglio così, anche perché dopo qualche anno tutto finì in una bolla di sapone nonostante il sindacato avesse preso piede in tante fabbriche e anche se veniva accettato soprattutto per la necessità delle aziende affinché potessero accordarsi e usufruire dei benefici dello Stato, visto che la crisi calzaturiera era giunta alle porte e l’appoggio del sindacato era utile ai datori di lavoro sia per la cassa integrazione che per risparmiarsi i soldi che avrebbero dovuto sborsare agli operai dopo tanti anni di lavoro alle loro dipendenze. Ogni azienda poté così trovare i sotterfugi per liberarsi dei tanti obblighi e senza dover sborsare una quantità di soldi, per le tante pendenze che le competevano, sia per i lavoratori che per il territorio dove per tanti anni avevano operato e profittato su tutto. Infatti le fabbriche e il lavoro calzaturiero pian piano svanirono lasciando in questa terra soltanto le scorie, in tutti i sensi, sia mentali che ambientali: materiali inquinanti sepolti dappertutto e tanta gente in mezzo alla strada, senza lavoro e senza mestiere, oltre che incapaci dopo tanto tempo chiusi e cresciuti in fabbrica e troppo ignoranti per poter riprendere un’altra attività dignitosa. Ora stiamo pagando tutti, con gravi conseguenze, le illusioni di quel benessere che si è rivelato solo fumo negli occhi”.

Francesco Greco


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