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Giochi infantili in Grecia e a Roma

«Costruire casette, attaccare topi a un carrettino, giocare a pari e dispari, cavalcare una lunga canna» erano secondo la testimonianza del poeta Orazio (Satire II, 3,247-248) alcuni dei divertimenti preferiti dei bambini romani, a questi si aggiungevano la trottola (il nostro cruvulu), mossa con uno spago o un frustino, il cerchio, spinto da un bastoncino, l’altalena, e poi i giochi di gruppo come il rimpiantino, la mosca cieca, lo “schiaffo del soldato”, i giochi con la palla, eseguiti sempre a mano. Un modo di giocare era anche imitare gli adulti, quindi si giocava a fare la guerra, i giudici e gli avvocati, i magistrati.

I magistrati, per esempio, si facevano accompagnare da piccoli littori con fasci e scuri fatte di legno, come ci ricorda Seneca (La perseveranza del saggio, 12,2), e c’è da scommettere che costoro facessero la faccia truce come chi sapeva che tra i suoi compiti c’era anche quello di tagliare ipso facto le teste su ordine del magistrato.

Usava, anche, nell’antica Roma giocare a testa e croce (capita et navia) gettando in alto una moneta e cercando di indovinare, prima che cadesse, se sarebbe rimasta in alto la parte decorata con la testa di Giano bifronte o quella decorata con una prora di nave, fino a che questa venne sostituita da altri simboli e raffigurazioni. Si giocava alla morra (digitis micare) che consisteva nell’indovinare, gridandola in anticipo, la somma delle dita della mano destra dei partecipanti al gioco rapidamente distese.

Uno dei giochi più diffusi era quello con le noci, tanto che l’espressione «lasciare le noci» aveva, secondo quanto ci dice il poeta Persio (Satire, 1,10), il significato di «abbandonare l’infanzia».

Il gioco era un gioco di abilità, una sorta di tiro al bersaglio con il quale si dovevano, ad esempio far cadere una o più noci, lanciate a distanza, in un vaso dalla stretta imboccatura o in buchette scavate nel terreno; oppure colpire, sempre con una noce, piccole piramidi formate da noci impilate l’una sull’altra.

Lu fitu e il gioco delle noci in una teca del museo civico di Giuggianello

La cosa singolare è che le noci, confezionate in sacchetti appositi, facevano parte dei doni tradizionali che gli adulti si scambiavano come strenna durante le feste dei Saturnali, le nostre festività natalizie.

Segno che probabilmente gli adulti amavano trastullarsi con i giochi infantili come, a loro volta facevano i bambini, quando imitavano nei loro giochi i grandi. E le bambine?

Le bambine giocavano con il cerchio, la palla, saltando con la corda, alle comari e soprattutto con le bambole (pupae), che erano di legno, ma le bambine benestanti le avevano anche di avorio, e con le articolazioni mobili, come attesta la famosa bambola di avorio, trovata in una tomba di una bimba vissuta nel II sec. d.C., scavata negli anni cinquanta presso il vecchio Palazzo di Giustizia, ora custodita presso i Musei Capitolini. Uguali erano i giochi dei bambini greci, un gioco tipicamente greco, poi introdotto a Roma, fu l’aquilone (aetós) per il quale non essendoci la carta si usavano o tele di lino, ovviamente lise, o, per chi riusciva a procurarselo, un foglio di papiro ormai inutilizzabile.

Altro gioco greco era quello detto della pentola (chutrínda). Uno, stando seduto, faceva da “pentola” e doveva cercare di afferrare, senza alzarsi né lasciare il posto, i compagni che gli si avvicinavano, i quali, attenti a non farsi prendere, gli rifilavano pizzicotti e scappellotti e gli facevano il solletico. Chi era preso faceva la “pentola” e il gioco ricominciava.

Pure greco era il “gioco del re” (basilínda). Consisteva in una gara di abilità, finita la quale il più bravo era proclamato re e il più inetto ciuco (ónos); il re impartiva ordini a tutti, il “ciuco” si prendeva, in disparte, le burle di tutti. Fra i tanti giochi non erano escluse le burle e le monellerie, spesso a scapito dei grandi, come quando i ragazzi appiccicavano a terra una moneta e rimanevano nascosti ad aspettare che un passante, attratto dal piccolo insperato guadagno, cercasse di raccattarla. Non ci riusciva e si allontanava, costernato, tra le beffe e la urla dei ragazzi che si divertivano a veder la faccia che quello faceva. Questi giochi sono durati più di due millenni; erano i giochi che si facevano ancora negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, prima che la televisione, i videogiochi e il traffico li facesse sparire dalle nostre strade e con essi l’allegria esplosiva di chi li praticava

Mario Monaco

Articolo pubblicato su “Terra di Leuca” – Marzo 2012, consultabile online al seguente link


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