Un antico esempio di frantoio ipogeo a Morciano di Leuca
Percorrendo, dal lato nord, le vecchie mura del centro storico di Morciano, si arriva, dopo aver oltre passato la chiesa del Carmine e la Chiesa Parrocchiale, in Piazza Giovanni Paolo II.
Sulla destra, si allunga la facciata nord-est della Chiesa Parrocchiale, mentre adiacente ad essa e di fronte agli occhi del visitatore, si presenta un piccolo fabbricato con un antico portone in legno.
Avvicinandosi ad esso, è possibile notare le raffinate decorazioni presenti sulla facciata, e una lapide in pietra recante una scritta in latino:
“affinché tu non vada oltre”
… e allora, fermiamoci e cogliamo l’invito. Il grande e massiccio portone in legno, ci apre un piccolo varco..una porticina; chiniamo il capo ed entriamo.
Un’atmosfera accogliente e calorosa pervade l’ampio spazio dove oggi ha la sua sede la Proloco di Morciano di Leuca, e il Centro di Documentazione e Museo del Territorio. Sulla sinistra, una grande macina in pietra per le olive, sulla destra, rasoterra, 12 strani fossi circolari, profondi non più di un metro.
“Sono le 12 presse del vecchio frantoio” inizia a raccontare una voce…. “ prima ancora di diventare un frantoio, però, (intorno al 1700), questo era un ospedale. L’edificio fu costruito nel 1561. Serviva ad accogliere i bisognosi… malati, poveri…o a dare rifugio agli abitanti del contado, durante le scorrerie Turche. Non a caso, infatti è addossato alla Chiesa e sicuramente, un tempo, era comunicante con essa e con l’ex- Convento dei Carmelitani, prima che venisse commesso lo scempio della sua demolizione.”
Seguiamo il nostro Cicerone che si dirige verso le due porticine in legno, dietro la grande macina per le olive, saliamo due gradini… “sono gli ambienti più antichi dell’antico ospedale” e con la mano, ci mostra una parete priva di intonaco che ci svela un’antica tecnica di costruzione: un impasto di tufo e paglia che ancora oggi sostiene intatto e senza alcuna crepa, questo fiero testimone dei tempi andati.
Siamo ora ritornati nella grande sala, con lo sguardo rivolto verso il basso, a scrutare quei dodici fossi… “sono le dodici presse del vecchio frantoio”… riprende la voce…. “le olive venivano prima messe nelle macine, grandi vasche circolari in pietra e schiacciate da un altro masso a forma circolare, posizionato verticalmente nella vasca, che ruotava trascinato dalla forza umana , poi sostituita dalla forza di asini o cavalli… e con l’avvento della tecnologia da motori elettrici. La pasta delle olive schiacciate, andava poi a riempire i cosiddetti fisculi, termine dialettale che non può avere una fedele trasposizione in italiano; sono delle tasche a forma di “ciambella”, se vogliamo usare un termine spiritoso; circolari con un foro centrale, realizzate con corde di giunco intrecciate e legate all’imboccatura centrale da canapa filata. Una volta riempiti, venivano infilati uno sopra l’altro ad un lungo palo verticale di legno e pressati da un torchio (alla Genovese) , che scendeva a mano a mano su di essi.
L’attrito della pressa, faceva uscire dai fisculi la cosiddetta santina , composta di olio e acqua vegetativa. La santina andava a finire nei 12 vasi. Ognuno dei 12 vasi ha, sul lato del fondo, un foro comunicante con un piccolo vaso adiacente a quello maggiore, e ognuno di questi piccoli vasi, ha un piccolo foro nella parte superiore, comunicante con un canale che si distende, da un capo all’altro, lungo l’intera fila.
Tutto si basa su un principio di fisica: Il Principio dei vasi comunicanti secondo il quale un liquido contenuto in due contenitori comunicanti tra loro raggiunge lo stesso livello. Per questo motivo, se si versa un liquido in vasi tra loro in comunicazione anche se di forma diversa, esso si dispone allo stesso livello in ognuno dei contenitori stessi.
In questo caso, ci sono tre vasi comunicanti: il vaso maggiore, quello più piccolo ad esso adiacente e il canale. La santina ricavata dalla pressione dei fisculi finiva direttamente nel vaso più grande. L’olio restava in superficie, dato che ha un peso specifico minore rispetto all’acqua vegetativa che, invece, andava sul fondo. Ecco svelata l’utilità della legge fisica: l’acqua vegetativa, restando sempre sul fondo, andava a riempire il vasetto più piccolo, il cui contenuto si riversava poi nel terzo vaso, il canale, e andava a finire in una cisterna sotterranea. Nei 12 vasi grandi, invece, restava solamente l’olio.”
Certo che i nostri antenati erano molto ingegnosi, verrebbe da pensare…nessun macchinario, nessun motore, nessun tipo di tecnologia; ma riuscivano comunque ad ottenere tutto dispiegando semplicemente la forza fisica ed intellettiva.
La voce non parla più, lascia le menti dei visitatori riflettere su quanto hanno appena visto e appreso, su quanto tempo è passato e quanto c’è stato dal momento in cui quelle presse hanno smesso di funzionare ad oggi. I visitatori si allontanano dall’antico marchingegno e, con il passo lento di chi è assorto tra mille pensieri, si dirigono verso la porta.
Ma la voce riprende a parlare, riportandoli nella realtà. “C’è un’ultima cosa da vedere” e con il cenno di una mano, li invita a scendere per una scalinata piccola e stretta. A mano a mano che si scende, un’aria fresca pervade il corpo e i sensi. Sceso l’ultimo gradino, ci si addentra nella penombra di una che, a prima vista, sembrerebbe una grotta. Il nostro Cicerone ha riservato ai suoi visitatori il pezzo più antico, più nascosto..più prezioso; un antichissimo “frantoio ipogeo”.
Due massi rotondi, ora ai due lati opposti della stanza, un tempo si trovavano al centro di essa , “il masso più grosso ruotava su quello più piccolo”, spiega, “trascinato da un uomo o da un cavallo. Le olive venivano così macinate. La pasta di olive veniva poi pressata sotto due torchi (alla Calabrese) che si trovavano subito al lato della macina, e ora divisi da un muro costruito per dare sostegno alle dodici presse situate precisamente al di sopra del frantoio ipogeo. Il torchio alla calabrese è, ovviamente più antico rispetto al torchio alla genovese, che ne è sostanzialmente una copia. Per cui non è necessario spiegare nuovamente il loro funzionamento, che si basava, anch’esso sul principio dei vasi comunicanti. Vorrei, invece, catturare la vostra attenzione su dei piccoli dettagli…apparentemente inspiegabili…
Un cumulo di pietre, appoggiate ad un parete, in corrispondenza di un varco scavato tra le pareti rocciose della grotta, e un letto, scavato nel tufo, cercano di deviare la comprensione di questi luoghi. Nulla di tutto ciò, infatti, serviva alla lavorazione dell’olio. Allora, perché si trovano qui? Cosa ci nascondono? Cosa ci raccontano…
“Correva l’anno in cui il feudatario di Morciano era Rodolfo Sanbiasi. (1500) Suo fratello fu accusato di aver violentato e ucciso una giovane ragazza, per cui, era ricercato dalla legge. Chi mai lo avrebbe potuto trovare in questo posto perduto, da secoli dimenticato. Gli fu costruito il letto, interamente scavato nel tufo, e un comodino, al lato. Quando non c’era alcun pericolo in vista, si arrampicava sul cumulo di pietre, dalla fessura usciva direttamente nel giardino del chiostro, e passeggiava indisturbato tra le mura del castello fraterno.
Ma questo non bastò ad ingannare le forze della Legge, che riuscirono a scovare il suo nascondiglio; troppo tardi però. Arrivarono quando lui era già fuggito. Fuggito non si sa dove, e da dove, non fece più ritorno.”
La voce ha smesso di parlare. I visitatori, risalendo la scalinata, lasciano dietro sé quella frescura che si era impadronita di loro e li aveva accompagnati per tutto il racconto. Lasciano dietro di sé questo mondo sotterraneo che è la storia vista dal basso, la storia di chi ha sofferto per vivere. Il rovescio della medaglia; il versante del lavoro contro la società aristocratica dell’ozio e dello sperpero.
Sandra Sammali