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“Ciucci” e “Uttari”

Ciucci e Uttari, due parole dialettali che significano rispettivamente “asino” e “costruttori di botti”. Con questi due termini si è soliti chiamare gli abitanti di Gallipoli, infaticabili lavoratori che nel corso dei secoli passati hanno portato vanto e lustro al regno delle due sicilie prima e al regno d’Italia poi.

Il termine asino non viene solo utilizzato per indicare gente ignorante o testarda ma è anche utilizzato come simbolo di forza e costanza nel lavoro, tanto che la figura di questo fedele compagno dei lavori nei campi è entrato anche a far parte di numerosi modi di dire come ad esempio: “lavorare come un mulo”.

L’asino ha accompagnato il contadino salentino per secoli e secoli nei più svariati lavori e non è quindi un caso che la grande volontà dei gallipolini sia stata identificata con questo animale.

Ma da cosa deriva questa convinzione? Perchè i gallipolini sono identificati come degli stacanovisti?

Ben pochi forse sanno che in antichità il porto di Gallipoli (e in misura minore anche altri porti del Salento), era un attivo e famossismo punto di interscambio commerciale di prodotti di prima necessità, soprattutto grano, vino ed olio: tutti prodotti rigorosamente nella terra del sole.

Uno squarcio del porto di Gallipoli

Uno squarcio del porto di Gallipoli

L’olio, a differenza degli altri prodotti, è ampliamente utilizzato in molteplici settori (anche non gastronomici), come ad esempio nell’illuminazione, nei lanifici, nella realizzazione di saponi…era quindi il prodotto più commercializzato tra gli altri. Una volta lasciata la terra salentina questi enormi carichi d’olio si dirigevano verso i principali porti d’europa e non solo. Non è una caso infatti che tra i cognomi di alcune delle famigli gallipoline, ve ne siano alcuni non proprio autoctoni come: Spinola, Vallebona,  Calvi. Questi sono discendenti di famiglie genovesi, veneziane, sarde: famiglie di commercianti che si spostarono nel salento per motivi di lavoro.

Molti dei paesi esteri che commerciavano con Gallipoli avevano le loro rappresentanze nel territorio con veri e propri consolati come: Austria, Danimarca, Francia, Inghilterra, Impero Ottomano, Paesi Bassi, Portogallo, Prussia, Russia, Spagna, Svezia e Norvegia, Turchia, rimasti in loco fino al 1923.

La fase di carico delle botti d’olio, così come la procedura di scarico dei prodotti importati da altri porti, richiedeva molto lavoro, e i gallipoli svolgevano l’attività di facchinaggio senza sosta al fine di non interrompere questa imponente macchina di “marketing”. Molto probabilmente l’associazione all’animale da soma deriva proprio da questa loro quotidineità.

Non è tutto. Le botti con cui veniva trasportato l’olio venivano realizzate nella stessa città salentina, con una tecnica ed una esperienza fortificata dal tempo e dalla tradizione. Il meticoloso lavoro di costruzione di queste botti però, andava in certo verso sprecato nel momento in cui l’olio da commercializzare sarebbe stato destinato verso paesi più freddi nei quali era molto probabile la solidificazione. L’unico modo per estrarre l’olio dalla botti sarebbe stato quelle di distruggere il recipiente stesso, comportando una notevole perdita: la botte così come il legno utilizzato per costruirla non sarebbe stato più riutilizzabile.

Il loro ingegno quindi li portò alla definizione di un nuovo modello di botte, più economica e particolarmente adatta all’estrazione dell’olio, anche se solidificato, che in questo modo poteva essere venduto a chili e non più a litri.

Instancabili lavoratori dunque, ma anche molto astuti e ingenosi.

Il monumento al riccio

Il monumento al riccio, posto difronte al Castello nel porto

Marco Piccinni

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA:

-“Agenda di Babbarabbà 1997. Soprannomi paesani nelle province di Brindisi, Lecce e Taranto tra storia e fantasia” – supplemento del “Quotidiano” dicembre 1996 (Arti grafiche Mondadori) a cura di Antonio Maglio

Wikipedia – Gallipoli


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