Il viaggio di Janet Ross nella Puglia dell’800
Questo articolo è tratto da una raccolta delle opere che alcuni scrittori-viaggiatori europei, venuti in visita in Italia, hanno scritto in relazione al fenomeno del Tarantismo, e che potete visionare sull’apposita pagina dei nostri amici di FriendsOfPuglia, curata da Monia Saponaro. Vi invitiamo caldamente a visitarla per maggiori e interessanti informazioni.
LA TERRA DI MANFREDI (LA PUGLIA DELL’800)
A cura di Vittorio Zecchino, Lorenzo Capone Editore, Cavallino 1978
Janet Ross intraprende il viaggio in Italia nella primavera del 1888 alla ricerca di iscrizioni tombali. Ha un’educazione classica, storico – artistica, ma non è una specialista. Amante del medioevo, sia dell’arte che delle vicende storiche dell’epoca.
Le tappe del viaggio coincidono con i centri nei quali è possibile richiamare alla mente momenti ed episodi relativi a Federico II e a Manfredi della casa degli Hohenstaufen.
Viaggia in Puglia durante la Settimana Santa in compagnia di Carlo Orsi e Giacomo Lacaita al quale il libro è dedicato.
Il suo contributo alla tradizione è particolarmente importante in quanto trascrive tre canzoni: Riccio Riccio, Larilà e La Gallipolina.
Narra del primo approccio al ballo l’anno prima a Leucaspide e in seguito all’incontro con Don Eugenio Arnò , riferisce della tarantola.
Distingue tra “tarantismo secco ” e “tarantismo umido”, sottolineando per il primo l’importanza della presenza dei colori e per il secondo l’importanza dell’acqua nel cerimoniale.
Tratto da: La Terra di Manfredi ( La Puglia nell’800), trad. I. Capriati, p. 138- 140
” Quando fui un’altra volta a Leucaspide, l’anno prima Sir James Lacaita invitò tutte le donne che lavoravano alla fattoria ed alcuni muratori che facevano delle riparazioni nel giardino, ad una festa da ballo. Di quel ballo selvaggio, e di quel più selvaggio cantare che accompagnava il ballo, conservavo tale piacevole impressione, che pregai il nostro gentile ospite di offrire un nuovo trattenimento ai suoi lavoranti. Il tempo era splendido, la notte mitissima, per cui andammo tutti sulla “loggia” con un magnifica chiaro di luna – un chiaro di luna affatto meridionale – e fu ballata la ” pizzica – pizzica ” con tutto lo slancio, e la grazia abituale in quelle garbate popolazioni. Una lunga canzone d’amore viene detta cantando: l’uomo balla di fianco e gira dintorno alla sua ballerina, la quale tenendo con grazia il grembiale fra il pollice e l’indice di tutte e due le mani, sembra stia per poco a sfuggire il suo ballerino. Ad un tratto si gira un braccio sulla testa, e l’altro appunta arditamente sul fianco, mentre facendo schioccare le dita ed allontanandosi di un balzo, sembra sfidare il suo compagno a seguirla. Corrono allora tutti e due lungo la “loggia”, l’uomo con la testa rovesciata indietro e gli occhi schizzanti fuoco per l’eccitamento, e gridando degli ha- ha mano mano che è più prossimo a raggiungere la ragazza. Poi, calmandosi, e ritornando sui loro passi, la prima maniera lusinghiera ricomincia, e molte volte finisce che l’uomo cade in ginocchio davanti alla fanciulla ciò che è segnale di grande approvazione e battute di mano del pubblico.
Se il primo ballerino è stanco, vien subito surrogato da un altro, e così per la ballerina; e perfino il nostro ospite cedette alla tentazione della musica e del ballo, e dimostrò che la sua lunga permanenza in Inghilterra non gli aveva impedito di rammentare i difficili passi della “pizzica – pizzica” di cui era stato – ci diceva ridendo e anelando – un appassionato ballerino.
La nostra orchestra si componeva di una chitarra, di un violino, e di una chitarra battente che ha cinque corde di metallo e che produce un suono così aspro e chiassoso, da far “ballare un bufalo”, come essi dicono; di più un tamburello e la cupa cupa, che è una pignatta di terra cotta, sulla cui imboccatura è distesa fortemente un pezzo di pelle, attraversata da un bastone nel centro. Il suonatore comincia prima collo sputarsi due o tre volte nelle mani, e poi prende ad alzare e ad abbassare questo bastone nella pignatta con tutta la sua forza, producendo un rumore assordante e strano, e che rammenta un po’ la cornamusa in lontananza.
Dopo che parecchi boccali di vino furono girati intorno alla compagnia, io proposi che si cantasse una canzone; ed uno degli uomini subito me ne cantò una, sentimentale non solo, ma anche parecchio stonata. Ciò non per tanto, destò l’ammirazione di tutti, perché – avevan cura di assicurarmi – era ” scritta proprio in musica”. Naturalmente a questa ammirazione io mi associai, ma pregai però di farmene sentire un’altra. Una canzone del paese ” La Gallipolina ” essendo stata scelta ad unanimità, un uomo me la cantò accompagnandosi con la chitarra battente. Trascrissi la musica e la conservo. Gl’intelligenti probabilmente la giudicherebbero brutta se la sentissero; ma io vi ritrovo un certo fascino strano, quasi come nelle musiche arabe. Inutile dire poi, che perde terribilmente adattata sul pianoforte.
Le parole sono queste:
La Gallipolina
” Sono stato a Roma e m’aggio confessato
A un padre vecchierello di Messina”
“Dimmelo,figlio mio, il tuo peccato?”
“Padre, ad una donna gli voglio bene”
“Zittiti figlio mio, tu fai peccato
Di amar la donna a te non conviene”
“Dimmelo padre mio com’aggio a fare
Se vuoi il cor mio, essa lo tiene”
“Allora figlio mio, sa che fare
Per penitenza le voglioli più bene.”
(.)
Domandai anche a Don Eugenio delle informazioni circa la famosa tarantola. La stagione non era ancora ben avanzata, per poter noi vedere l’insetto -ragno, e gli effetti della sua morsicatura; ma tutta la povera gente e parecchie fra le persone più civili credono implicitamente al “tarantismo”, a dispetto del sonetto che dice:
Non fu Taranta, né fu Tarantella,
ma fu lo vino della carratella.
Le informazioni che mi diede Don Eugenio, spettatore di centinaia di casi, differiscono da quelle avute da altri. Egli mi diceva: Esistono varie specie di quest’insetto che ha differenti colori, e vi sono due specie di tarantismo, quello umido e quello secco. Le donne, quando lavorano nei campi di grano, sono più soggette ad essere morsicate a causa delle poche vesti che portano addosso, durante il caldo eccessivo. Il male si annunzia con una febbre violenta, e la persona colpita di dimena furiosamente in tutti i versi gridando e lamentandosi. Allora subito si fanno venire dei musicanti, e se la musica che si suona non incontra la fantasia della tarantata ( o tarantato, vale a dire la persona morsicata), la donna ( o l’uomo) si contorce e si lamenta più forte, gridando ” no, no, no questa canzone“. I musicanti allora cambiano immediatamente motivo, e il tamburello strepita e picchia furiosamente per indicare la differenza del tempo. Finalmente quando la tarantata trova la musica che fa per lei, si slancia d’un balzo e si mette a ballare freneticamente.
Se poi si tratta di ” tarantismo secco“, i parenti cercano il colore dell’insetto che l’ha morsicata, e le adornano le vesti e i polsi di nastri dello stesso colore dell’insetto, bianco o celeste, verde, rosso o giallo. Se nessun colore risponde a quello che si cerca, allora vien coperta da strisce di ogni colore, che svolazzano intorno a lei come essa balla, si dimena, si agita con le braccia per aria, da vera indemoniata. La funzione o cerimonia si comincia generalmente in casa; ma va a finire sempre per la strada, sia per il caldo, sia per la tanta gente che si raccoglie. Quando finalmente la “tarantata” si calma, vien messa in un letto caldo, dove dorme qualche volta sino a diciotto ore di seguito. Pel “tarantismo umido“, i musicanti vanno a sedere per lo più vicino ad un pozzo, dove la tarantata viene irresistibilmente attratta; e mentre la disgraziata balla, un numero straordinario di parenti e di amici la inondano d’acqua, per cui, diceva Don Eugenio, ” è incredibile la quantità d’acqua benedetta che viene consumata“. E ne parlava con vero dispiacere, perché in Puglia non è difficile il caso, che il bestiame muoia in estate per mancanza d’acqua. Pare che il “tarantismo umido” sia quello peggiore, perché talvolta la febbre si prolunga a sino a settantadue ore; ma in tutti e due i casi, fui assicurata che se i musicanti non sono chiamati, la febbre continua indefinitivamente, e viene qualche volta seguita da morte.
” Vicino a Taranto” continuava Don Eugenio, “c’è un mastro muratore che conosco benissimo, il quale pieno d’idee moderne, beffeggiava chiunque gli parlasse di morsi velenosi della tarantola, e minacciava di battere le donne di casa se si fossero permesse di chiamare i musicanti in caso di morsi di tarantola. Sia stata fatalità, sia stato volere di San Cataldo, un bel giorno fu morsicato proprio lui; e dopo aver sofferto tutte le pene dell’inferno, con un a febbre indiavolata per parecchi giorni, finalmente mandò a chiamare la musica, dopo aver chiuso accuratamente tutte le porte e le finestre della casa. Ma il delirio fu tanto forte che con gran gusto di quelli che credono nel “tarantismo”, spalancò la porta e si slanciò in mezzo della strada, gridando con tutte le forze che aveva” Hanno ragione le femmine! Hanno ragione le femmine!”
Per questo trascrissi la musica della tarantella che mi fu insegnata da un vecchio contadino che la suonava sul violino, accompagnato da suo figlio con la chitarra battente, e da un altro con la chitarra francese. Erano tutti e tre chiamati spesso per i ” tarantati “, e mi assicurava che quel motivo aveva sempre un gran successo.”