Culacchi barocchi: serpi neri, racconto inedito di Francesco Greco
Massàru Peppi pensò che il Signore gli aveva dato un figlio sanu sanu (stupido), a cui mancava la chiave. Cose che succedono ai vivi, mormorò rassegnato fra sé e sé. All’improvviso lo scanciùne (appena svezzato) ancora senza barba s’era messo a correre sotto e sopra la linza (lenza, lingua di terra lunga e stretta), passando sotto gli ulivi, calpestando i pomodori cespugliosi, facendo stramìgnu (disordine) dei fagiolini rampicanti che crescevano abbarbicandosi alle canne, come i pomodori greco-romani, e le zucchine, e i cocomeri, e…
Erano andati ai Parèddhi di buon mattino a strappare le pasaddhàre (piselli secchi) e mò s’era fatto tardi e il sudore impregnava la maglia di lana pesante. Si passò la mano sulla fronte e se la pulì ai calzoni mille volte rattoppati. “Che cazzo sta succedendo qua?”, bestemmiò. E quando il figlio gli passò davanti, sempre correndo e calpestando tutto quello che trovava davanti, gli gridò: “Ohhh, che minchia stai facendo?… Che stai masciànnu (ripulendo dalle erbacce) la terra? Non li porti tutti sani i sensi?… Focu meu: abbiamo fatto la casa cannìzzu… (Abbiamo fatto la casa con le canne, caduca)…”. Ma il ragazzo colse solo un vago senso di rimprovero del genitore, che pure temeva e spesso lo zollàva (picchiava), torci vinchiatèddhu quannu è tennarèddehu… (piega il giunco quando è ancora verde…) prima di risalire verso scirocco. E quando giunse di nuovo a tramontana il padre, sudato come una pera, riprese più arrabbiato anzichenò perchè lo sciagurato gli stava mettendo a disordine l’orto, e se passava qualcuno avrebbe pensato che padre e figlio avevano perduto la ragione o erano ubriachi e a sera l’avrebbe raccontato all’osteria e tutti si sarebbero fatti beffe di Massàru Peppi e il figlio senzasàle (sciocco): “Che, t’ha morsicato la tarànta?”. Il figlio stavolta fece in tempo a dire una parola: “Quelli…”, prima di sparire come folgore a tramontana.
Sol’allora il contadino da mille generazioni si accorse che qualcuno inseguiva il ragazzo. Quando ricomparve non badò più a lui, ma a chi era che lo spaventava facendolo correre come fulmine del cielo. Fu un istante, ma bastò per intravedere due sagome lunghe e nere brillare come diamanti.
“Nell’erba… “, disse il ragazzo guardando a terra.
Allora capì, perchè, quando aveva l’età del figlio, era capitato anche a lui: aveva visto due serpi neri ‘ncacchiàti (intrecciati) al sole sulle rocce delle Murge e li aveva insultati:
”U mònucu cu la mònaca…” (Il monaco con la monaca).
Erano partiti sibilando come saette e l’avevano inseguito per tutto il feudo, finchè non si ricordò le parole del padre, Massàru Franciscu:
“Bùttagli qualche cosa che hai addosso, così si fermano e scaricano la rabbia…”.
E così aveva fatto: s’era tolto la camicia e l’aveva buttata dietro di sé e quelli l’avevano fatta a mille frìnguli (pezzi) e così s’erano fermati.
E quando il figlio gli passò accanto ansimando gli urlò:
“Bùttagli la camicia… La camicia dagli, stòdicu (stupido)…”.
Ma quello non capì, per cui ricomparve di nuovo nel mezzogiorno più alto che ardeva cielo e terra, più sudato che mai, e due serpi neri che gli correvano dietro come saette, tallonandolo senza pietà. E quando gli passò vicino gli urlò di nuovo:
“Lèvatela e bùttala, e vaffanculo a chi sei figlio e chi t’ha fatto le scarpe…”, si spazientì.
Stavolta il ragazzo capì, che proprio stupido non era, anzi. Solo che temeva i rimproveri della madre e, sempre correndo fra gli ulivi e abbassandosi quando le ‘ntràsse (cime basse) potevano accecarlo, in un tragitto che ormai conosceva a memoria, quando giunse accanto al padre urlò:
“La mamma mi uccide, è nuova, roba di spollànti (sfollati)…”.
E quando ripassò davanti al padre calpestando una pianta cespugliosa di pomodori San Marzano, manco l’avesse morso la sacàra (biscia d’acqua), il padre gli gridò:
“Bùttala, affanculammàmmata! a te e a chi t’ha creato…”.
La prese per un’assunzione di responsabilità e alla fine si decise, se la levò e la buttò dietro di sé: mica potevo correre per tutta la vita, mamma, pensò a mò di scusa quando gli avrebbe rimproverato di aver perduto una camicia che anche se non era nuova e aveva le toppe poteva tirare ancora chissà per quanto che ai tempi del pane amaro panni di uno erano per tutti, le donne andavano tutte senza mutande, grandi e piccole, e i bambini si toglievano le scarpe a marzo e se le rimettevano alle prime acque (piogge) d’ottobre.
Le bestie ebbero la loro preda su cui sfogare il veleno, e ridussero la camicia a scacchi azzurrini a ecce homo. Poi ritrovarono le loro tane e sparirono al fresco. Il mezzogiorno sfavillava come diamanti quando il ragazzo,ancora sudato e ansimante, osservò quel che ne restava all’ombra di un vecchio ulivo dai rami spalancati. Il padre gli arrivò alle spalle e si mise a guardare anche lui la stoffa squartata dai denti aguzzi. Serrò le labbra, scosse la testa. Per un istante pensò di bruciare quel che restava della camicia, poi gli passò di mente e silenzioso e pensieroso andò anche lui verso la pajàra dove il figlio beveva dall’orciolo per farsi passare la paura. Passò l’acqua al genitore ed entrambi parevano rapiti da chissà quali barocchi pensieri. Eccitate le cicale li guardarono curiose quando padre e figlio s’avviarono verso casa dove c’era un piatto di fojie mmische (verdure selvatiche) e di fave nette, ancora più pensierosi, sudati come cavalli alla salita, affamati come lupi.
A massàru Peppi allora vennero a mente tutte le storie che aveva sentito in vita sua, di serpi che avevano ingoiato gazze e galline e perfino ricci, tutt’interi. Pensò di raccontarle al bambino, ma si trattenne per non spaventarlo: già ci voleva la massima curpa (molta fatica) per trascinarlo al campo, se gli metteva anche paura non ne sarebbe più passato finchè campava. Storie di sacàre che nascoste nello stàntulu (stipite) della porta d’ulivo la notte succhiavano al petto delle femmine che li credevano i loro bambini, creature morte avvelenate dalle loro spine sotto i piedi, che a quel tempo si andava tutto squasàti (scalzi), cristiani che sfatti dal caldo e dalla zappa, al tramonto si mettevano una serpe nera al posto della curìscia (cintura), uomini a cui era scoppiato il cuore a forza di correre perchè avevano sfottuto i serpi avvinti per i fatti loro, tutt’uno, luccicanti nel sole sfavillante dello zenith d’agosto, gridando per gioco:
“A Madonna cu lu diàvulu…” (La Madonna col diavolo) e, inseguiti e messisi a correre per tutto il feudo, dai Fani ai Resci, dalle Campine alle Padule, dal Cavalcatore alle Palane, non sapevano che bisognava togliersi qualcosa di dosso e buttarla per fermare le bestie impazzite, che instancabili e col fischio che stordiva i cristiani, al tramonto li avevano raggiunti e sbranati tutt’interi, e quelli ancora vivi che non erano morti di paura bianchi come una parete di calce o che non gli era scoppiato il cuore e altri che ancora correvano e correvano senza requie e le trombe del Giudizio Universale suonate ai quattro venti dagli angeli e gli arcangeli li troveranno ancora ansimanti e sudati con lo stomaco in petto e gli amanti sfottuti all’apice dell’estasi, instancabili, dietro di loro anche all’altro mondo per il tempo che verrà…
Francesco Greco
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