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Intervista al filosofo francese S. Latouche “In fuga da Assurdistan per la decrescita felice”

“In 350 anni di cosiddetto sviluppo, abbiamo consumato metà petrolio, eliminato metà delle foreste del pianeta, estinto specie animali e attentato senza limiti alla biodiversità. Non ce ne vorranno certo altrettanti per concludere l’opera….”.

E’ amara l’ironia di Serge Latouche che teorizza la salvezza dell’umanità con la “decrescita” (in Ecuador e Bolivia la chiamano bendio e la pachamama, la terra e l’acqua sono soggetti di diritto nella Costituzione) che uno scienziato di valore come Maurizio Pallante definisce “serena e felice”, che potrebbe salvare l’umanità e dare occupazione alle nuove generazioni e ha nella lumaca il suo simbolo forte.

Il filosofo francese (bretone) è popolare come una rockstar: a migliaia in tutto il mondo corrono a sentire le sue teorie. E’ accaduto anche in Puglia (è stato all’Università del Salento e a Corigliano d’Otranto, Castello dè Monti), nel tour con cui propone il suo ultimo libro, L’abbondanza frugale. Latouche si rende conto della palude in cui è finito il pianeta, il capitalismo ansimante, il liberismo hard che formatta le risorse naturali. Continuando con questa follia non abbiamo futuro, siamo tutti cittadini di Assurdistan e detta la sua formula per uscire dal tunnel a riveder le stelle: “Decrescita o barbarie”.

Serge Latouche - Filosofo

In questo incontro traccia il cammino che, come società nel complesso e singoli individui dai comportamenti virtuosi, dovrebbero assumere per evitare il probabile default della civiltà.

Domanda: Prof. Latouche, la critica che le fanno più di frequente è che la crescita non si può arrestare e che lei vuol tornare indietro…

Risposta: “Assolutamente no. Nel mio libro teorizzo una critica allo sviluppo. Non si tratta di tornare indietro. L’economia poggia sulla fiducia nel progresso, oggi occorre essere agnostici del progresso. Perché oggi il progresso significa rifiuti da smaltire, milioni di disperati, inquinamento ambientale, suicidi quotidiani. Dobbiamo costruire un nuovo mondo”.

D. Altra accusa: la decrescita è un’utopia: vuol tornare alla società tribale?

R. “Lo ripeto: c’è un malinteso sull’idea di crescita: oggi l’industrializzazione in tutto il mondo devasta la natura, frantuma i legami sociali, porta la tragedia della disoccupazione portata dalle fabbriche che chiudono, la precarietà. Di questo passo, con lo sviluppo senza progresso corriamo verso il baratro. La decrescita è contro tutto questo, perché tende a dare prosperità ma senza crescita. Essa è l’ecologizzazione del progetto socialista. Il socialismo si è dimenticato dell’ecologia. La depressione attuale dovrebbe far ripensare al modello di sviluppo che vogliamo darci. Insomma, la decrescita, al punto in cui siamo arrivati, non è più un’opzione ma una necessità per una nuova qualità della vita. Per non vivere ad Assurdistan servono comportamenti diversi”.

D. Vogliamo scendere Professore su un terreno più concreto?

R. “Certamente. Dobbiamo delocalizzare l’immaginario che ci impongono i mass media per liberarci di due tabù che fanno il gioco dei mercati finanziari: inflazione e protezionismo. Rilocalizzare le attività, demercificare, demondializzare, sviluppare l’idea di riparare le cose. Occorre la riconversione ecologica dell’agricoltura, contrastare le lobby degli Ogm free: la più potente è la Monsanto. Puntare ai prodotti biologici, a km. zero. Ogni kg di carne che portiamo in tavola costa 6 kg di petrolio. Mangiamo yogurt che per arrivare al centro commerciale ha percorso 9mila km: una follia. Ripensare l’orario di lavoro: lavorare meglio, lavorare meglio: 20 ore settimanali consentirebbero di sviluppare i beni relazionali. Solo così creeremo nuova occupazione. Togliamo il coperchio di piombo di questa società monopolista e capitalista per aprirci all’idea di diversità, all’universo sensibile di cui diceva Max Weber. Dobbiamo uscire dal capitalismo, specie quello che c’è nella nostra testa. Tutto questo non è facile ed è una prospettiva di lungo termine”.

D. Si obietta: l’uomo è un animale avido, che vuole sempre di più…

R. “Non avremo futuro se non sapremo limitarci: i bisogni illimitati non si possono soddisfare. L’impronta ecologica andrebbe ridotta del 75%. Dobbiamo costruire rapporti di forza per imporre il cambiamento, una società alternativa. La decrescita non è un’alternativa in sé, ma una matrice di alternative. Il sistema di produzione capitalista è un monolite, un pensiero unico, l’uomo unidimensionale di cui diceva Marcuse ha monopolizzato il pianeta: l’homo economicus ha occidentalizzato il mondo”.

D. Nella società alternativa quale il ruolo delle banche?

R. “La moneta non è una merce, si regge sulla fiducia. Il dollaro vale perché tutti pensiamo che vale. Da Aristotele abbiamo imparato che la moneta può essere buona o cattiva. E’ comunque un bene pubblico di cui i popoli debbono riappropriarsi. Dai creditos argentini agli ecoaspromonte, ci sono esempi di monete fatte dai popoli. Nella società che vuol decrescere dovremmo tornare a questi sistemi, come nel Medioevo. Controllare quella che Spinoza chiamava ‘passione triste’. Ripeto: la moneta non deve essere lasciata a esperti e tecnici, ma controllata dai popoli”.

Francesco Greco


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