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La Cripta di Santa Cristina a Carpignano Salentino

La cripta di Santa Cristina di Carpignano Salentino rappresenta l’estrema sintesi dell’arte bizantina. Raccoglie in un unico ambiente secoli di rimaneggiamenti, evoluzioni e fasi pittoriche che si possono leggere nei diversi palinsesti, icone e gruppi iconografici firmati da almeno tre grandi artisti, che hanno lavorato minuziosamente nell’oscurità alla luce di piccole lanterne, e datato le proprie opere tra le più antiche conosciute. Le icone bizantine non devono essere necessariamente belle, non devono essere reali, ma devono interrogare il visitatore sulla sua fede. Lo sguardo fisso e insistente, spesso pronunciato da linee di colore e le mani prominenti, servono ad analizzare il fedele che non deve distrarsi dalla loro bellezza, bensì deve sentirsi giudicato, osservato. Un concetto che trasparirà e si dissolverà con il tempo. Il “divino” abbandona le icona religiose e l’importanza del “messaggio” da veicolare cede il passo al bello e al reale. Un “interruzione” resa più drastica dal passaggio dal culto greco a quello latino, avvenuto a Carpignano già nel 1584.

Conosciuta anche come chiesa della Madonna delle Grazie, inseguito ad una delle due apparizioni Mariane in questo luogo di culto, la prima nel 1440, o anche come Cripta delle Sante Marina e Cristina a causa di un erronea interpretazione di un affresco da parte del De Giorgi (che qui porterà anche i rituali di guarigione della Santa protettrice dalla malattie renali ed epatiche), la cripta in oggetto può dirsi ad onor del vero un’autentica Cappella Sistina dell’arte bizantina, che non smette ancora di sorprendere con nuove scoperte.  Questi affreschi sembrano cambiare di giorno in giorno!  Dall’operazione di restauro iniziata nel ’99, e continuata per una manciata di anni a seguire, sono emersi  nuovi affreschi, mentre nuovi dettagli di quelli già conosciuti vengono alla luce quasi quotidianamente. Nomi, vesti e particolari di vario genere emergono dal tempo sulla roccia affrescata in diverse condizioni di umidità. Anche il tono delle tinte sembra nutrirsi di nuova linfa vitale come se attingesse ad un elisir di eterna giovinezza.

Si celebrano due messe l’anno, una l’8 settembre in onore della Madonna delle Grazie ed una il 6 Gennaio, officiata secondo il rito cattolico-bizantino dal parroco della chiesa di San Nicola (conosciuta anche come chiesa greca) di Lecce.

L’intero vano, impostato su un impianto originale a due navate e tre absidi, può essere ulteriormente suddiviso in tre porzioni distinte: il nartece, dove sostavano in compagnia delle raffigurazioni di un Arcangelo Michele, una Madonna con Bambino e un Sant’Aronne, i catecumeni, coloro che non avevano ancora ricevuto il sacramento del battesimo e per questo non ritenuti degni di accedere al luogo sacro, probabilmente obliato dalla presenza di un tenda; il naos, luogo invece destinato ai fedeli battezzati che volevano assistere alla celebrazione; il bema, luogo inaccessibile ai fedeli ma ai soli agli officianti, separato dal naos dall’iconostasi, solitamente costituita da tende o un divisore in legno o in muratura.

L’assenza di un ciclo pittorico che rappresenti le principali scene di vita di un santo e il rinvenimento di numerose sepolture nel nartece, farebbe presupporre un origine sepolcrale del luogo di culto, destinato al ceto più abbiente della società. L’identificazione di numerose altre tombe all’esterno della cripta, invece, ipotizzerebbe anche la presenza di un cimitero per le masse popolari.

Oltre ai nomi di Santi sulle pareti della cripta compaiono anche i nomi di committenti ma soprattutto dei pittori: Teofilatto, Eustazio e Costantino.

Il lavoro di Teofilatto, un pittore dalle origini ignote e del quale non si conoscono altre opere al di fuori di questa Cripta,  è datato 959 d.C, il più antico, ma decisamente anche quello più realista. Risale al periodo della rinascenza macedone che numerosi fasti porterà anche nel Salento:  nel 968 viene infatti proclamata l’atocefalia di Otranto che diviene inoltre sede archimandrita a sè stante, un centro di straordinaria importanza arricchito dalla presenza del monastero di San Nicola di Casole. Il gruppo di Teofilatto rappresenta su uno degli absidi un Cristo vestito di oro e porpora, che siede su un trono. Benedice con la mano destra e con la sinistra regge un vangelo dall’alto, poggiando la parte inferiore sul ginocchio. Un dono per l’uomo, che l’accoglierà prendendolo dal basso. Alla destra del Cristo la Vergine seduta su un trono simile a quello del figlio, che invece stringe nella mano un fuso, simbolo pagano per antonomasia della parche che filano la vita dell’uomo, in un legame che segna un continuum tra il regno celeste e quello terreno, nonché simbolo di purezza e castità. Alla sinistra del Cristo l’Arcangelo Michele, un’immagine che rompe la staticità della pittura bizantina con la sua posizione a ¾ mentre si protende verso Maria con le gambe leggermente flesse.

Gruppo di Teofilatto (Fonte: http://www.iltaccoditalia.info)

L’affresco nell’altare centrale, un tempo murato, divide il lavoro di Teofilatto da quello di Eustazio. Si tratta di un’immagine delle vergine con mani e viso arcaici, bambina, tenuta in braccio da Sant’Anna. Una scena che non trova traccia nei vangeli canonici in quanto nessuno menziona mai l’infanzia della madre di Cristo.

Anche Eustazio rappresenta nel suo gruppo iconografico la Vergine con Bambino e un arcangelo. Il suo lavoro è datato 1020. I lineamenti dei suoi personaggi, irrealisticamente statici, sono più arcaici, segno della continua varietà nell’arte bizantina che alterna momenti di splendore a momenti di decadenza. La sua Vergine rappresenta il dogma della Theotokos ,secondo quanto stabilito dal concilio di Efeso, Maria vista come madre di Dio e non come genitrice di un uomo. La vergine è in piedi, il bambino dai lineamenti del volto ambigui, confusi con quelli di un uomo adulto, sembra quasi levitare tra le mani della madre che tentano di sorreggerlo ma che in realtà non lo toccano direttamente. L’arcangelo Michele  è invece avvolto in una stuola  di 5,7,9,11 metri lavorata con perline e pietre preziose che si avvolgeva solitamente al corpo dell’imperatore, nelle vesti del quale qui si rappresenta. Regge in una mano uno scettro e nell’altra il globo crucigero, pronto a proteggere il luogo di culto con la sua spada.

A completare l’iconostasi altre figure di Santi come San Nicola di Myra, una seconda Vergine con Bambino avvolta in un velo rosso ( come da tradizione bizantina), San Vincenzo di Saragozza, e poi ancora un trittico con San Teodoro Studita, San Nicola e Santa Cristina, quest’ultima ricorrente in diversi altri affreschi in tutta la cripta. Un terzo gruppo chiude le firme d’arte, quello di Costantino, realizzato nel 1050-1055 con assoluta eleganza, connotazione che traspare addirittura nella precisione con la quale scrive la dedica del committente su alcune righe appositamente tracciate. Qui riconosciamo due Santa Cristina, Santa Agata, San Paolo e altre due figure terribilmente danneggiate.

A corredo del nartece è stato posto un altare barocco, probabilmente nel corso del ‘700, che incastona in un ovale un immagine della Madonna Odegitria, che regge il bambino con la mano sinistra mentre con la destra a coppa accompagna l’umanità Cristiana verso Cristo, unica via di Salvezza. Una tomba ad arcosolio invece manifesta, all’interno di una dedica, tutto l’amore di un padre che ha perduto il proprio bambino (tra il 1065 ed il 1080) prima che questi potesse essere battezzato, e che affidava alla benedizione di San Nicola, Santa Cristina e alla vergine madre, la sua anima, affinché potesse raggiungere il grande Patriarca, Abramo.

Marco Piccinni

Fonte dell’immagine: www.iltaccoditalia.info


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