L’emigrazione interna italiana negli anni ’50 e ’60
Il fenomeno migratorio italiano ha falcidiato fin dall’Ottocento, in misura diversa, tutte le comunità regionali italiane. La nostra ricerca si sofferma, in particolare, sugli aspetti che esso ha assunto negli anni del miracolo economico. Soprattutto fra gli anni ’55-’63, un flusso notevole di persone scorre verso le città del centro-nord Italia, in particolare verso le metropoli di Milano, Torino e Genova, ai vertici del cosiddetto “triangolo industriale”.
Gravi condizioni di vita e di lavoro al sud spinsero gli uomini ad andare via da una terra che sembrava arcigna. Il fenomeno non si limitò al sud, ma coinvolse anche alcune zone del nord, impoverito per le stesse ragioni, da cui emigrarono all’interno del territorio nazionale e all’esterno, in Europa e nel resto del mondo, America soprattutto.
L’emigrazione italiana nel mondo
L’emigrazione italiana nel mondo, dal 1861 al 1970, coinvolse complessivamente oltre 27 milioni di cittadini, una cifra impressionante!
Circoscrivendo il periodo all’ultimo dopoguerra, possiamo affermare che le regioni meridionali acquistano una netta “supremazia” nel contributo di continua e inarrestabile emorragia di persone, incoraggiata dalle autorità perché si riteneva servisse da antidoto alle tensioni sociali e perché, come dice lo storico Rosario Villari in Il Sud nella storia d’Italia, si pensava che avrebbe fornito una via “naturale” e “spontanea” alla soluzione della questione meridionale. Dal 1958 al 1963 l’Italia “esporta” nei paesi europei oltre un milione e mezzo di emigranti, fra i quali circa i 2/3 provengono dal Sud. Sono per l’Italia “gli anni del più rapido sviluppo economico”, in cui è relativamente facile trovare un posto di lavoro a Milano, a Torino, a Monaco, a Colonia o a Zurigo.
Il peso delle regioni meridionali nell’originare questi flussi migratori aumenta progressivamente fino a costituire nel 1963 quasi i 3/4 degli espatri e il 100% del saldo migratorio. Fra le regioni meridionali, Puglia e Campania appaiono le più “ricche di emigranti”.
L’emigrazione interna
Verso la metà degli anni ’70 cessa ogni flusso migratorio verso i paesi extraeuropei. Negli anni dal 1958 al 1963 si muovono dalle regioni del Mezzogiorno oltre un milione e trecentomila persone. Dalle 69.000 nuove iscrizioni anagrafiche del 1958 nei comuni del triangolo industriale, si passa nel 1963 ad un numero quasi triplicato (183.000), già superato l’anno successivo fino a raggiungere le 200.000 unità. A Milano i flussi migratori provenienti dall’area lombarda e veneto-emiliana negli anni ’50 diminuiscono sensibilmente grazie a un relativo benessere economico di queste aree, a cui fa riscontro la crescita progressiva dell’immigrazione meridionale e insulare. Questa passa dal 17% del totale nel periodo 1952-57, al 30% nel periodo 1958-63.
A Torino l’ondata migratoria più massiccia investe la città negli anni tra il 1959 e il 1962 con 64.745 unità nel ’60, 84.426 nel ’61 e 79.742 nel 1962. Questa manodopera disperata e a buon mercato giunge sui treni della speranza soprattutto dalla Puglia e dalla Sicilia (rispettivamente sono 16.951 e 10.783 gli emigranti che lasciano quelle terre), ma anche le altre regioni meridionali partecipano cospicuamente: la Calabria con 4.890 unità, la Campania e la Sardegna rispettivamente con 3.536 e 3.504 immigrati. Un fenomeno particolare riguarda il Lazio, interessato ai movimenti migratori soprattutto per la natura amministrativa e terziaria di Roma.
Da contadini a muratori irregolari
Che lavoro fanno gli emigranti al loro arrivo nelle città del nord o nella capitale? Soprattutto si impiegano nell’edilizia, un lavoro che richiedeva un numero consistente di operai per costruire i palazzoni nelle periferie metropolitane. I dati parlano chiaro: nel 1962 a Genova il 70% della manodopera edile è di provenienza meridionale, a Torino nel 1960-61 lo è l’80% circa degli edili iscritti alla Cassa Edile. Mentre a Milano i non residenti avviati in edilizia nel 1962 sono quasi l’85% del totale e i gruppi di calabresi, pugliesi e siciliani sopravanzano ormai i veneti e anche i lombardi.
Le condizioni di lavoro, all’inizio senza neppure una regolare assunzione, determinano uno sfruttamento “bestiale” e incidenti a ripetizione nei cantieri. Per passare ad una situazione di “promozione sociale” e di relativa stabilità, occorrerà attendere la chiamata della FIAT a Torino o di una grande fabbrica meccanica, chimica o siderurgica a Milano.
La seconda ondata
Gli anni che vanno dal 1968 al 1970 sono caratterizzati da una “seconda ondata” migratoria di rilevanti proporzioni dal sud al nord: nel 1969 risultano immigrati a Torino circa 60.000 lavoratori, di cui oltre la metà dalle regioni meridionali, mentre in Lombardia giungono 70.000 nuovi immigrati. A Torino e provincia l’elemento scatenante sono le assunzioni alla FIAT: si trattò di un afflusso improvviso di 15.000 operai giovani, meridionali, nella loro stragrande maggioranza di origine non contadina, scolarizzati ma senza prospettive di lavoro nelle loro regioni d’origine. Una massa enorme che si trova a fare i conti con il problema dell’abitazione. Si cercano le più disparate soluzioni, quelle che offre una società stravolta e impreparata a questi arrivi e quelle che suggerisce l’arte di arrangiarsi.
Le “coree”
Nascono case “fai da te” e piccoli, disordinati nuclei urbani lontani dal centro, le “coree degli immigrati”, un nome assunto dalla contemporanea guerra in Corea e dall’impressione che ne avevano avuto i milanesi, ai quali gli immigrati si presentavano come degli esuli, dei profughi, come “gente che aveva perduto una guerra”. Queste costruzioni improvvisate e frutto di una architettura popolare sopravvivono ancora in alcune zone del Lorenteggio a Milano. Nei paesi della “cintura” milanese, dove i terreni costano di meno, si formano dei nuclei urbani (coree), che, come sostengono Franco Alasia e Danilo Montaldi, in Milano, Corea – Inchiesta sugli immigrati, significano “disordine di accostamento, assurdità urbanistica, cumulo di errori tecnici, promiscuità di ogni tipo, speculazione incontrollabile”.
Altrove, come a Torino e a Genova, si verifica l’abbandono del centro degradato da parte dei proprietari che cercano altrove abitazioni più confortevoli e più moderne. Nella città marittima si svuotano i quartieri del porto e in generale della città vecchia per riempirsi dei diseredati, lo stesso avviene a Torino con i Murazzi e San Salvario. Gli emigranti occupano tutti gli spazi disponibili: soffitte, cantine, sottoscale, vecchie cascine e persino case destinate alla demolizione, e quando non ci riescono vivono in alloggi sovraffollati. L’esito è il moltiplicarsi delle bidonville: “ruderi delle case bombardate nel vecchio centro storico erano stati riadattati ad abitazioni primitive, sulle rive e sui greti dei due corsi d’acqua si stendevano lunghe file quasi ininterrotte di baracche e capanne”, così in L. Cavalli, Gli immigrati meridionali e la società ligure.
Solidarietà e lotte sindacali
Da un lato quindi lavoro precario e mansioni dequalificate, dall’altro pessime condizioni di vita fuori dalla fabbrica, a cominciare dal problema della casa. Di fronte a questo scenario, ai meridionali non resta che reagire intensificando il lavoro, nella speranza e nella prospettiva di conquistare una condizione di vita più dignitosa e poter richiamare la famiglia.
L’esperienza sui luoghi di lavoro e la condivisione delle sofferte condizioni materiali spinge ad un processo di omogeneizzazione fra emigranti e classe operaia locale, favorito dalla pratica di forme di solidarietà e dalla partecipazione alle lotte sindacali che si andavano organizzando per ottenere migliori condizioni di vita e di lavoro e per l’affermazione di un maggior potere contrattuale in fabbrica. Nel corso dei rinnovi contrattuali si organizzano scioperi e manifestazioni pubbliche – una novità per gli operai meridionali! –, che culminano a volte in veri e propri scontri con le forze di polizia, come avvenne nel 1962 in Piazza Statuto a Torino.
L’autunno caldo e le lotte del ‘68-’69 in Italia e in Europa consolidano il rapporto di solidarietà e saldano le rivendicazioni degli operai e degli emigranti con quelle degli studenti. In Francia essi partecipano alle manifestazioni del “Maggio”, in Belgio sono in prima fila fra i minatori immigrati e in Italia innalzano il vessillo delle lotte e dei diritti alla FIAT e nelle altre piccole e grandi fabbriche, dove ormai – si può dire – si era chiuso un ciclo e se ne apriva un altro, con un ruolo da protagonisti. L’esito della lunga marcia da un capo all’altro della penisola era sotto i loro occhi, compiaciuti rispetto ai progressi fatti, ma incerti di fronte ai problemi irrisolti e alle prospettive future.
Paolo Rausa
Articolo già pubblicato su e-Storia: rivista quadrimestrale di divulgazione storica (anno II, numero 3 – Novembre 2012)
Bibliografia:
Rosario Villari, Il Sud nella Storia d’Italia, a cura di R. Villari, Bari, Laterza, 1974.
Ugo Ascoli, Movimenti migratori in Italia, Bologna, Il Mulino, 1979.
Goffredo. Fofi, L’immigrazione meridionale a Torino, Milano, Feltrinelli, 1975.
Luciano. Cavalli, Gli immigrati meridionali e la società ligure, Milano, Angeli, 1964