Il museo del minatore di Casarano
1946. Il secondo conflitto mondiale è ormai un ricordo, così come lo è ciò che resta delle numerose vittime mietute in tutti i campi di battaglia o eliminate come immondizia nei campi di concentramento. L’Europa intera ne esce provata. Nei paesi più industrializzati la produzione stenta a ripartire per mancanza di manodopera, in quelli più dilaniati si razionano i viveri mentre dilaga lo spettro della disoccupazione e della povertà.
Un accordo, siglato tra Italia e Belgio con la firma di De Gasperi e Van Hacker, sembrava dovesse porre fine all’annoso problema della sopravvivenza post-bellica per una piccola fetta della popolazione europea. Lo stato belga si sarebbe impegnato a consegnare all’Italia 200 kg di carbone al giorno per ogni lavoratore che quest’ultima sarebbe stata disposta ad inviare in terra straniera, per un minimo di 50.000 unità. Era appena stato stipulato l’“Accordo uomo-carbone”.
Il Belgio poteva ora contare su 50.000 nuovi minatori da spedire nelle viscere della terra, mentre l’Italia, da sempre carente di materie prime per soddisfare il bisogno dell’industria metallurgica, faceva tesoro dell’immenso quantitativo di carbone che il Belgio le corrispondeva.
La notizia si estese in lungo e in largo per tutto il bel paese. La prospettiva di un posto di lavoro dopo mesi di stenti e sacrifici, ben pagato anche se lontano da casa, rappresentava un’occasione d’oro, da non perdere. La novità giunse anche nel Salento, dove migliaia di uomini, con la valigia di cartone alla mano, abbracciavano i loro cari in un ipotetico saluto. Si sarebbero recati a far le visite mediche nei capoluoghi, per poi prendere subito il primo treno dopo aver ottenuto la certificazione medica di idoneità.
Da 50.000 unità si giunse rapidamente a 140.000! Il Belgio divenne ben presto la meta designata per l’occupazione in un settore nuovo a molti. Una scelta dettata dalla disperazione che giunse purtroppo ad un triste epilogo. L’8 Agosto del 1956, nella miniera Bois du Cazier (oggi patrimonio Unesco), a Marcinelle, nei pressi di Charleroi, un terribile incendio tolse la vita a 262 su 274 uomini in servizio. 136 erano italiani, 16 i salentini. Dopo il disastro di Marcinelle l’Europa cominciò ad interrogarsi sulle precarie condizioni di sicurezza che i minatori dovevano fronteggiare. Non si poteva più far finta di non sapere. L’accordo bilaterale tra i governi si interruppe.
Una realtà, quella della miniera, che dal Belgio è giunta anche sino a noi, a Casarano, dove nel 2006 è nato il museo del minatore, fortemente voluto da Lucio Parrotto che per 30 anni ha estratto il carbone a 1500 metri di profondità.
Dopo essere tornato nella sua terra, che aveva lasciato quando aveva solo 21 anni, Parrotto ha lottato con determinazione per la realizzazione di un ponte con il quale mettere in comunicazione il Salento con Marcinelle. L’erezione del monumento al minatore, il gemellaggio con Charleroi, incontri con delegazioni e capi di stato, rappresentano solo alcuni dei passi che questo piccolo grande uomo, oggi non più tra noi, ha compiuto per ricordare quanti, come lui, sono partiti in cerca di una speranza e non hanno più fatto ritorno dalle loro famiglie. Tutte le vittime che ben presto si è smesso di contare ma le cui anime aleggiano in quel museo che, così emotivamente, racconta la vita di un minatore. Non importa quale fosse il nome di battesimo, la fuliggine rendeva tutti uguali.
La paga era buona, è vero, ma ogni giorno era difficile stabilire se si avrebbe potuto far ritorno a casa. Costretti a scavare nel ventre della terra, in cunicoli alti anche solo 30 centimetri, in una posizione rigida, puntellando la volta dello scavo per evitare crolli esclusivamente nell’area limitrofa al minatore. Spesso costretti a togliersi la maschera, e masticare del tabacco come deterrente per l’inalazioni delle polveri, per rendere più agevole il lavoro in spazi esigui. Tutto pur di rispettare il motto che hanno sentito ripetere fino a farlo proprio: dove passa la lampada DEVE passare il minatore. Ogni giorno, estrarre i 200 kg di carbone da mandare all’Italia per onorare l’accordo. Lavoro per il quale non ricevano nessuna paga, lo si doveva fare gratuitamente per il bene della patria. E ancora, l’abolizione della giornata di sospensione dell’attività in miniera per ogni vita che si portava via, ammenoché il conteggio delle vittime non avesse raggiunto quota cinque nell’arco della stessa giornata. Numerose cronache e aneddoti di continui incidenti e stragi. Sono solo alcune delle cose che la mente riesce a ricordare mentre cerca di districarsi tra gli orrori delle immagini che in essa si compongono.
Sentimenti contrastanti, di quelli che ti si ritorcono nelle viscere, che originano dai diorami ricostruiti nel museo del minatore e animati dalla propria immaginazione seguendo la voce narrante della guida, la figlia di Lucio. Bambini, poco più che adolescenti che si infilano in gallerie strettissime, uomini intenti a lavorare negli spazi più angusti nei quali si è sicuri di non riuscire a resistere neppure per un minuto, figuriamoci per una vita intera. Mezzi di comunicazione e illuminazione, documenti, tute e attrezzi da lavoro, articoli di giornale e ricordi. Si riscopre un orrore per la prima volta, si entra in contatto con una realtà che ormai hai fatto anche tua in quanto italiano.
L’Italia dovrebbe essere grata ai suoi minatori, ogni giorno di più.
Il museo è visitabile su prenotazione. Per informazioni consultare il sito www.museodelminatore.it
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Marco Piccinni
paga non congrua ,ma non nessuna paga! Altrimenti perchè andavano?