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Francesco de Maglie, da Minervino di Lecce al Belgio passando da El Alamein

Di che cosa devo parlare, di che materia?’ – Francesco De Maglie mi traguarda come se alla distanza di pochi passi l’uno dall’altro intercorressero tra noi tempi e vicende incontenibili. ‘Partiamo dalla fanciullezza, da quando eri ragazzo?’ – la mia idea di tempo è lineare, quella di Francesco tumultuosa. – ‘Se io debbo raccontare della mia fanciullezza attraverso la prigionia, la guerra, il carcere ti nascono i capelli bianchi!’ – ‘Perché?’ gli chiedo e attacca a narrare.

Francesco de Maglie

Francesco de Maglie

Il 28 ottobre 1948 fu la mia condanna a morte nel senso che… Niente! Io avevo degli operai per andare a seminare, incontrai per strada un certo Panico Salvatore, invalido della 1^ guerra mondiale…’ – il convoglio è partito, ma io non capisco dove siamo, quali sono i suoi precedenti, i luoghi, i suoi natali… Capisce che deve fare un passo indietro, attacca. A Minervino di Lecce il 7 marzo 1919 – luogo e data di nascita – da famiglia contadina, il secondo di 9 figli viventi, di cui due donne. La madre Grazia Gullace di Gioia Tauro. ‘Mio padre Giuseppe era capo frantoiano, nachiro. Tutti gli anni organizzava un gruppo di lavoro alla piana di Gioia Tauro per trasformare in oro liquido le olive calabre’. L’amore lo attendeva lì. ‘Partii militare scaglione 1^ gennaio 1939, assegnato al 73^ Rgt Fanteria Cravatte Azzurre di Trieste il 10 giugno 1940. Sotto il fascismo, si sentiva puzza di guerra.  Aveva voglia Mussolini a dire che avevamo 5 milioni di baionette… gli altri avevano carri armati e aerei. A quei tempi ero caporale, capo ronda a Villa Opicina. Lo Stato Maggiore aveva intimato agli slavi di abbandonare le loro case. Fu durante un giro di ronda che per calmare la fame mi impossessai di un prosciutto abbandonato in una casa. Quel gesto mi costò il deferimento e una punizione dalla quale mi salvai proponendomi come volontario al corso di paracadutisti di Tarquinia. Qui cominciò la prima vera svolta della mia vita a contatto con gli orrori della guerra combattuta sul fronte africano a El Alamein, nella divisione Folgore aviotrasportata a Tripoli e da lì con i carri militari ad Alessandria d’Egitto. I nostri erano ancora armati col il Moschetto 91/38, mentre dall’altra parte, nel campo inglese, disponevano di batterie, aerei e carri armati. Dopo una eroica resistenza fummo costretti ad arrenderci. Le azioni di guerra erano cominciate il 27 ottobre e durarono fino al 2 novembre 1942. Lì siamo rimasti fino al 1945. Decorati per il nostro eroismo! Gli inglesi ci resero l’onore delle armi! Poi caricati sui carri bestiame fino a Suez e di là trasportati sulle navi come prigionieri di guerra a Glasgow. Il viaggio di ritorno in patria avvenne via nave fino a Taranto e poi in treno a Poggiardo e con il carretto a Minervino. I ricordi sono nitidi e rievocati come fossero successi ieri. Ora possiamo ritornare all’inizio del racconto. In paese trovo la fame, nera. Il mio impegno come sindacalista a favore dei braccianti si moltiplica. Apro la sezione della Camera del Lavoro con sede a Minervino e zona di intervento fino a comprendere Uggiano, Casamassella e Cocumola. Quella mattina fatidica del 28 ottobre 1948 incontrai all’Ufficio di Collocamento un sedicente sindacalista, un tal Salvatore Panico, che a una mia richiesta di chiarimento su una pratica di pensione mi ingiuriò, definendomi sporco comunista! Accusato come comunista di aver rovinato l’Italia, io che ne avevo subite di cotte e di crude durante il fascismo e poi durante la guerra. Non ci pensai due volte e con tutta la forza gli assestai un forte destro in mezzo alla faccia che lo scaraventò a terra. Il corpo cadde riverso e batté con la testa. Era morto! Maledetto a me! Fui preso dalle Forze dell’ordine e rinchiuso al carcere di Lecce ai Bomboi. Condannato a 5 anni per omicidio preterintenzionale, uscì dopo due anni per l’amnistia repubblicana. Compresi che per me era finita l’esistenza nel Salento ed emigrai in Belgio, dove tuttora risiedo, a lavorare nelle miniere di carbone e a fare tutti i lavori possibili, in un paesino a ridosso delle Fiandre. Ma ogni anno ritorno al paese perché l’amore per la mia terra rimane tuttora sempre vivo!’

Paolo Rausa


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