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Fossili del Salento

Fossile, un termine la cui radice si riferisce all’atto dello scavo e che, per estensione, ha indicato in passato qualsiasi oggetto rinvenuto scavando, che fosse di origine biologica o minerale. Oggi invece si indica con questo vocabolo ciò che un tempo era vivo, un organismo o parte di esso relativo ad un’epoca che non ci appartiene più, ma di cui possiamo osservare le impronte nella nuda pietra.

Una sovrapposizione temporale nei medesimi spazi che vede coesistere spiagge e linee costiere in mezzo ad antichi uliveti dell’entroterra; organismi separati da milioni di anni di evoluzione che convivono nella stessa sezione di una parete ma a diverse “altezze”; specie tipiche di habitat tra loro antitetici eppure sono li, in cerca di un abbraccio che ha sfidato le ere geologiche.

Per diventare un fossile devono succedere molte cose. Prima di tutto, occorre morire nel luogo giusto. Soltanto il 15 per cento circa delle rocce può preservare i fossili: per esempio, i futuri graniti sarebbero da evitare. In termini pratici, l’organismo deve rimanere seppellito in un sedimento dove possa lasciare un’impronta – come una foglia nel fango umido – oppure decomporsi senza essere esposto all’ossigeno, permettendo così alle molecole presenti nelle ossa e nelle altre parti dure ( e molto sporadicamente in quelle molli) di essere sostituite da minerali dissolti, creando così una copia pietrificata dell’originale. A quel punto, mentre i sedimenti in cui il fossile giace vengono pressati, piegati e spinti senza alcun riguardo dai processi che hanno luogo nella crosta terrestre, il fossile stesso deve riuscire a mantenere una forma riconoscibile. Infine, cosa più importante, dopo decine, o forse centinaia, di milioni di anni nel corso dei quali è rimasto nascosto, il fossile deve essere scoperto e riconosciuto come oggetto degno di essere conservato. Si pensa che il processo di fossilizzazione interessi solo circa un osso su un miliardo”.

Così Bill Bryson, nel suo eccelso “Breve storia di quasi tutto”, descrive il destino di un fossile, quel “qualcosa” di misterioso scoperto in prossimità degli anni della disputa tra creazionisti ed evoluzionisti che vedeva teorie teologiche fronteggiarsi con le eccezionali scoperte scientifiche e le geniali intuizioni di Charles Darwin. Un “qualcosa” che per la prima volta mise in luce l’eventualità che la vita sulla terra potesse mutare, o nella peggiore delle ipotesi estinguersi.

Da microfossili e frammenti di macrofossili è costituita la pietra leccese, originatasi circa 6 milioni di anni fa. A Nardò, uno dei principali giacimenti di fossili in Italia dove nei bianchi calcari del Cretaceo superiore sono stati rinvenuti numerosi pesci in ottimo stato di conservazione, oltre ad alghe, meduse, crostacei e rettili. E sempre “salentini doc” sono alcuni fossili rinvenuti in una fascia che interessa l’area compresa tra Santa Cesarea Terme e il Ciolo, una delle tre insenature che tagliano trasversalmente la costa adriatica salentina.

Su questo lembo di terra e roccia, complici le numerose cave di estrazione del tufo, si sono concentrati gli studi di università e ricercatori i quali hanno permesso di identificare delle nuove specie fossili totalmente inedite.

Italo Papetti e Dante Tedeschi dell’AGIP (Direzione Mineraria, Sezione Paleontologica, San Donato Milanese) hanno individuato una nuovo genere di foraminifero (protozoi ameboidi eucarioti eterotrofi marini, sia bentonici sia planctonici [wikipedia]), battezzato Curvillierinella Salentina, un organismo unicellulare complesso che può raggiungere dimensioni di alcuni mm, rinvenuto in una cava vicino Poggiardo, in prossimità di un disturbo tettonico che porta a contatto le formazioni calcaree del Cretaceo con quelle del Miocene. Un organismo di cui non si hanno altre segnalazioni nel mondo e che risale al Santoniano Superiore, ritrovato in compagnia di strati di pecten e rudiste, sulle quali si è concentrata un’altra approfondita ricerca nel 2008 da parte dell’Università di Bochum. Quest’ultima ha analizzato gli isotopi di stronzio in 43 campioni di roccia all’interno delle quali sono stati individuati dei fossili di rudiste risalenti tra gli 86 e i 65 milioni di anni fa. Tra questi un esemplare che sembra autoctono del salento, simile al Sabinia e Pseudosabinia, vissuto in un arco di tempo ampio ben 12 milioni di anni.

Le rudiste erano molluschi bivalvi molto particolari. Vivevano generalmente in mari caldi con acque ben ossigenate. Durante il cretaceo ha costituito vere e proprie barriere denominate calcari o ippuriti (alcune anche nel Salento), benché siano note alcune forme solitarie.

ippuriti salentini

Ippuriti salentini

Ma il 2008 ha riservato anche altre sorprese per la popolazione fossile salentina. Quest’anno ha sancito il riconoscimento di una nuova specie di un mollusco dalla conchiglia divisa in otto placche, denominato Leptonchiton Serenae, in onore di Serena Lezzi, moglie del Professor Giuseppe Piccioli che per primo ha identificato nel 2003 la nuova specie all’interno del nascente parco dei fossili di Cutrofiano in un numero limitato di ritrovamenti. Scoperta ripetuta poi nel 2007 in una formazione geologica simile a quella del parco ma inabissata nel cristallino mare di Gallipoli. Una tipologia di mollusco molto rara a livello planetario.

Marco Piccinni

BIBLIOGRAFIA:


Bill Bryson – Breve storia di quasi tutto – Edizioni Tea;

Roberto Zorzin – Fossili. Studiali, conoscerli, collezionarli – Edizioni Giunti Demetra (2001);

Mutterlose, Steuber, Schreuer – Late Cretaceous (Campanian-Maastrichtian) rudist-bearing carbonate platforms of the Mediterranean Tethys and the Arabian Plate – Bochum 2008;

Papetti, Tedeschi – Nuovo genere di foraminifero del santoniano superiore;


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