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Veduta di Genova nel 1481, le sorti di Otranto in un acrilico di Cristoforo Grassi

1480. Sisto IV chiede l’intervento della flotta genovese per risolvere un problema impellente nelle contrade che vantano il primo sbarco dell’apostolo Pietro. Una città cristiana. Molto, molto lontana dalle terre liguri. I turchi hanno invaso Otranto.

Il Salento più del resto della Puglia, doveva fare i conti con un popolo sconosciuto, del quale aveva forse sentito parlare prima, dopo la caduta di Costantinopoli. D’ora in avanti si affacciava a lui con le sue imprevedibili invasioni piratesche che costavano solo il transito del Canale d’Otranto. Di essi le genti salentine si formavano un’immagine satanica, simbolo della «ferocia», della «crudeltà», del «sadismo», insomma del Male in assoluto.1

Sono trascorsi già alcuni mesi da quando una flotta turca, dopo aver messo d’assedio la città idruntina, povera di militari, per alcuni giorni, riesce ad espugnarne le mura, farne prigioniera la popolazione e ucciderne una buona parte che non accettò la conversione religiosa. Dopo drammatici giorni di terrore, raccontati con maestria e dovizia di particolari (secondo alcune ipotetiche ricostruzioni) dalla penna di Maria Corti, nel suo celebre “l’Ora di tutti”, la città di Otranto divenne una base strategica per l’esercito ottomano che da qui fece partire le sue scorribande ai danni dei comuni ad esso limitrofi per poi spingersi sempre più oltre. Un cordone di rifornimenti militari e strategici connetteva direttamente le coste salentine a quelle albanesi, cadute sotto la mezzaluna turca dopo la morte di Giorgio Castriota Scanderbeg (17 gennaio 1468).

Riconquistare Otranto, dopo la caduta di Costantinopoli, nel 1453, e di molte altre importanti città dell’est europeo,  era diventata una priorità. Una guerra di religione più che di imperi rischiava di lambire, da li a breve, i territori dello Stato della Chiesa.

La presa di posizione dello stato pontificio viene immortalata in una tempera di Cristoforo Grassi, intitolata “Veduta di Genova nel 1481” che, al di là di una non eccelsa qualità artistica, presenta numerose e interessanti particolarità. “Tra quelle meno conosciute vi è certamente uno strano corteo che attraversa la spiaggia della Foce, proprio nello spazio che, nella seconda metà del ‘500, vedrà il sorgere del Lazzaretto. Una fila di uomini armati precede un uomo a cavallo, dal largo cappello: in questo corteo si è voluto riconoscere il cardinal Savelli che giunse a Genova nell’autunno del 1480 per chiedere alla città, e al suo doge il contributo di Genova a una particolare e urgente crociata: i turchi, dilagati nei Balcani, avevano avvertito il fascino delle floride terre oltre l’Adriatico e, varcato di sorpresa il Canale, avevano assalito Otranto, impadronendosi della città e massacrandone la popolazione”.2

Decine di galee si apprestano nel frattempo a salpare dal porto della repubblica marinara. Destinazione: la provincia di Terra d’Otranto.

Veduta di Genova nel 1481

Veduta di Genova nel 1481 – Cristoforo Grassi

Diffidando dai Veneziani, contro i quali regna un feroce clima di sospetto nonostante vantino la possibilità di mettere in mare una flotta con centinaia di galee in pochi giorni per far fronte a qualsiasi evenienza (Venezia è considerata di fatto la più grande fabbrica d’Europa), Genova è vista come l’alleato più indicato. È comunque accusata di essere troppa chiusa a difendere i propri interessi e, malgrado sia un unico grande cantiere nautico, non può reggere il confronto con Venezia, in quanto, anche nell’epoca di Andrea Doria, tra l’ammiraglio di Carlo V, i suoi parenti e le galee dei “privati” genovesi, raramente si superano le venticinque unità. In questo senso non troveremo, ripercorrendo la storia della flotta pontificia, un rapporto stretto con i veneziani: non costruiscono, pur avendone la possibilità, galee per il papa; e non vi sono capitani o ufficiali veneziani per la sua flotta. Diverso il rapporto con Genova: questa non ha l’esclusiva, certamente, del suo personale, ma vi è un numero tale di capitani che fanno sembrare questa liason tutt’altro che sporadica.2

Genova e Venezia sono probabilmente le vittime maggiori dell’avanzata ottomana, vedendosi danneggiate le principali rotte commerciali al di là dello stretto del Dardanelli. L’avanzata ottomana in oriente indusse Il papato ad invitare ad una crociata e “mai, come ora, era chiaro che questa crociata doveva contare su mezzi navali, navi e galee, per portare l’offesa a un regno terrestre la cui capacità di penetrazione sembrava inarrestabile. Questa “flotta della crociata” o “flotta del papa”, all’inizio resta virtuale. Ne è un esempio il manoscritto della Biblioteca Nazionale di Parigi, il decreto “De Bello contra Turcos gerendo” , redatto da papa Enea Silvio Piccolomini (Pio II), nel 1458: il frontespizio miniato del manoscritto mostra una grande flotta, sotto le bandiere crociate, navi e galee pronti a sfidare la potenza turca che è, ancora e soprattutto potenza terrestre.” 2

Ma nel 1481 la questione è ancora aperta. L’intervento della flotta genovese diviene quindi l’arma fondamentale per poter recidere le comunicazioni con il territorio albanese, vera e propria retrovia dei turchi assediati in Otranto. L’intento è quello di indebolire gli assedianti riducendone i rifornimenti e i rinforzi.  E i genovesi servono per questo: irretiti dalla possibilità di far bottino, si troveranno, viceversa, ad esercitare un blocco navale lento e stremante. Le prede, poche e modeste, saranno piccoli bastimenti di cabotaggio che tentano di portare generi alimentari alla rocca di Otranto. L’occasione sarà triste e drammatica: in mesi e mesi di inattività, all’ancora, sotto il sole, equipaggi stanchi e sfibrati dall’attesa, vedranno comparire la peste, a causa delle abominevoli condizioni igieniche. Marinai, vogatori e comiti moriranno colpiti dalla pestilenza. Altri, come Ceva Doria, consignore di Oneglia, faranno in tempo a tornare a casa, ma solo per morirvi. L’esperienza non si chiude invano: delusi e amareggiati, i genovesi, lasceranno gli ormeggi non appena la guarnigione turca, arresasi, ma con la clausola di “salva la vita e le robe”, avrà lasciato Otranto con il suo bottino e le sue armi, varcando il canale in senso inverso. Le galee torneranno in Liguria, ai porti d’armamento. 2

Il resto è storia nota. L’arrivo delle milizie di Don Alfonso d’Aragona, ad oltre un anno dell’assedio turco, mette la parola fine ad un altro triste capitolo della penisola salentina, forse uno dei più cruenti di cui si ha memoria collettiva.

Otranto aveva conosciuto quel triste nemico di cui aveva sentito spesso parlare. Aveva provato sulla sua pelle la paura di non sapere cosa ne sarebbe stato del proprio futuro e quello della sua progenie. Fortunati poterono dirsi coloro che non provarono il lungo brivido del terrore anche se, nello stesso tempo, “subentrava in loro una maggiore consapevolezza del dramma subito, anzi della tragedia sfrontatamente consumata in pochi giorni, nell’estate del 1480. E quel dramma si incise nel cuore e nella mente: era un’immagine continua e persistente che si incuneava nella psicologia di massa, diventava un fantasma della cultura antropologica delle genti, compariva come fattore traumatizzante e sempre in negativo nei rapporti del vivere quotidiano.1

Al di là delle pagine di storia, delle connessioni e appoggi più o meno condizionati da questa o quell’altra impellenza politica, da quelli che furono intrighi e bramosie di potere, il dramma dell’assedio si consumò nelle conversazioni soppesate, nelle parole non dette, nei lunghi respiri roventi di polvere e terrore, in vane speranze e tacite rassegnazioni:

“Oh, sue eminenza non ci pensa,” mi rispose il segretario, “è immerso nelle preghiera”.

“Dovreste impedirglielo, è pericoloso.”

Il segretario alzò gli occhi al cielo, come se la cosa io dovessi risolverla direttamente col buon Dio.

Non mi restava che attendere di essere ricevuto. L’arcivescovo mi venne incontro con tanta lievità che nemmeno lo udii accostarsi: “E allora, mio bravo Zurlo?”

“la situazione è sempre più grave, eminenza,” dissi “Potremo resistere pochi giorni.”

Egli levò le dita nell’aria, disse con voce carezzevole: “è necessaria ora una fede immensa.”

“Il fatto è che non abbiamo artiglieria, eminenza,” risposi, “mentre i turchi hanno alcuni pezzi molto grossi. Se arriveranno subito i rinforzi, bene, altrimenti è impossibile farcela.”

“Sentite, amico, se coi poteste per un momento lasciar da parte l’idea che ci siano cose a Dio impossibili, che fareste per la nostra città?”

Io scattai: “Quello che stò facendo, eminenza, quello che la mia testa di governatore e di soldato di sua maestà cattolica mi suggerisce: ho distribuito gli otrantini sui bastioni e sulle torri, i soldati napoletani in parte sulle mura e in parte presso i conventi di S. Giovanni e di S, Francesco, che saranno attaccati per primi, perché sono ai due estremi della città; dalla parte del porto non ci assaliranno, essendo l’acqua troppo bassa per le galee. Ho fatto raccogliere tutti gli animali da macello, i cani e i gatti per razionare i viveri. Poi, se volete, posso predirvi la fine di tutto ciò, qualora non giungano in settimana in rinforzi.”

L’arcivescovo scosse il capo, quasi volesse negare le mie ultime parole, al che io fui sul punto di perdere la pazienza e dissi:

“Voi parlate, eminenza, come se in Otranto abitasse una schiera di arcangeli e di serafini armati di spade, ma vi abitano solo dei poveri pescatori disarmati.” 3

Marco Piccinni

BIBLIOGRAFIA:

[1] Luigi Carducci, Storia del Salento, Mario Congedo Editore, 2007

[2] Pierangelo Campodonico, Genova e le galee di Roma, in Speciale Roma, Maggio 2004, pagg 36-45

[3] Maria Corti, L’ora di Tutti, Tascabili Bompiani, 2011


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