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La spurchia e i filosofi

Una novella inedita di Francesco Greco (tratta dalla raccolta “Culacchi barocchi”)

Crà, crà, crà…
… e io ti dico, porco di così, che il seme di quella maledetta sta proprio dentro la fava… – affermò convinto zì Pati bevendo d’un fiato il suo quinto di malvasia nera nel bicchiere di creta dei maestri della terracotta di Lucugnano – perché da sola non nasce e quindi non può che stare proprio dentro la fava…”.

“Ma che dici, compare mio? Lo sanno tutti che la samènte (seme) sta dentro la terra…”, rispose algido nonno Franciscu riempiendosi il suo dalla rustica ciampòvala (recipiente di argilla) posato sulla giummanèa (mensola).

Le viscere fredde erano una delle caratteristiche della sua razza, e io che racconto le ho ereditate (incluso il nome): sono suo nipote.

Per tutta la vita, Franciscu aveva trasportato còtimi (cose di creta) alle fiere e alle chiàzze (mercati) con il cavallo che aveva imparato a memoria tutte le strade di Terra d’Otranto, da Galatone a Nardò, da Parabita a Matino tiritùppiti Casarano, anche di notte quando si orientava con la luna e le stelle.

Crà, crà, crà…

Tutti gli ignoranti come voi…”, non si trattenne proprio zì Pati, e fece un bel pìvutu (scorreggia) come chi ha mangiato fagioli alla pignata (recipiente di terracotta per la cottura dei legumi al fuoco).
Mio nonno non s’offese. La disputa andava avanti da secoli, anzi, da millenni, dall’alba dell’uomo, e ancora non se n’era venuti a capo e chissà quando mai avverrà che si decide dove sta davvero la spurchia (orobanche), se mai avverrà.

Pianta di Orobianche

Pianta di Orobianche

Che la maledetta è proprio quella pianta, peraltro mangiata dalla notte del tempo fritta nell’olio o lessa con olio e aceto, che nasce proprio accanto alla fava, la aspetta come se le tendesse un agguato e la debilita ingrassando a sue spese, succhiando tutta la linfa vitale: su qualsiasi terra metti a dimora le fave, pure in capo al mondo a domineddio, terra scordata, è sempre là che aspetta.

Crà, crà, crà…

Fave

Fave

Siamo all’inferno, nel girone degli avvinazzati. Non che i due vecchi abbiano alzato il gomito più di tanti altri della loro risma nelle vecchie putèe (osterie) di Lucugnano, Miggiano, Santa Femia e dintorni. Ma questo è il loro destino e lo hanno accettato quasi come una nuova, eccitante sfida, chè i nostri popoli non sono usi al lamento sin da quando sbarcarono dall’altra riva del mare e si misero ad allevare api e cavalli.

D’altronde, cosa dovevano fare per sopportare la fatica se non bere il vino nero che macchia i denti e mette allegria nel sangue quando si passa la vita a zappare, scatanàre (scendere nella profondità della terra) da sole a sole? Senza non lo avrebbero sopportato, forse sarebbero impazziti stonati dal sole.
Non è come lo dipingono, l’inferno: semplicemente si sta là seduti tutto il tempo davanti al fuoco di un grande camino dalla bocca nera, si chiacchiera in libertà, si ricordano i tempi passati, si beve vino, si mangiano noccioline americane, pistacchi, germogli di cicoria, sedani, finocchi, ceci e fave arrostiti si sprìculano (sbriciolano) sotto i denti: crà, crà, crà…

In parole povere, lo avrete capito: se questo è l’inferno, anche io non aspetto altro che d’andarci. Sono un pessimo oratore e sentir raccontare mi piace da quando ascoltavo i culàcchi (racconti) di mia madre Antonietta, un Omero donna che aveva la capacità di non ripetere mai allo stesso modo lo stesso racconto: introduceva sempre un altro personaggio, una nuova battuta, un’altra scena.

Se questo è l’inferno, allora vuol dire che i preti ci hanno raccontato un sacco di frottole, giusto per terrorizzarci con la paura delle fiamme eterne e così dar loro le nostre gisùre (campagne).

Se si beve il buon vino dei Fani che incendia il sangue e fa venire pensieri allegri e a volte anche peccaminosi, e qualche volta si mangiano pezzetti di cavallo col sugo ascuànte (piccante), e a volte una bella vuliàta (pane e olive) calda calda, appena sfornata dal forno della Cisaria e magari qualche pìttala (frittella natalizia) col cavolo o col miele, e due mustazzòli (mostaccioli) croccanti, la “cupèta” (croccante di mandorle e zucchero), l’inferno mi piace davvero, e magari l’altro, quello brandito da preti furbacchioni dagli altari e i frati dai pulpiti tarlati, a mò di minaccia, “ove sarà pianto e stridor di denti”, è per gli sciocchi paurosi e anche per qualcuno di loro malandrino che dorme con la moglie degli altri e si intesta la gisùra (campagna) promettendo al vecchio la salvezza dell’anima.

Crà, crà, crà…

I due vegliardi, morti a quasi 100 anni, dopo aver sparso molto seme e molti figli, aver vissuto una vita degna, da uomini, riprendono la conversazione interrotta.

Io dico – aggiunge nonno Franciscu – che è il vento a portarla vicino a dove tu hai messo a dimora le fave…”.

Vento? – riprende l’altro – ma allora tu stai ncironàtu (ubriaco) proprio bene, compare… Sono le formiche, mannaggia la peronospera, quelle puttane che spargono i semi della maledetta che poi mangiano sulle mie fave, uno sbocco di sangue…”, imprecò.

E con un bel rutto dei fagioli della sera prima, aggiunse un altro taccru (ramo d’ulivo) accudendo il fuoco come se fosse un bambino. Crà, crà, crà…

Ma c’è invece chi dice che siano i passeri a portarla… Io – aggiunse Franciscu dopo una breve pausa in cui si grattò l’orecchio da cui spuntavano lunghi peli neri – però l’acqua l’avevo trovata: spostavo la terra dove facevo le fave e così la prendevo di sorpresa… Mi aspettava alla Padule? E io le mettevo nel mio campo nel feudo di Cafùdda…”.

Se fosse così facile… E poi quella arriva ovunque, le fave le trova da sola, quasi come se le odorasse o le aspettasse…

Eppure – sospirò zì Pati accomodandosi meglio la vecchia cappa sulle larghe spalle – porco di colì, negli ultimi anni le mie fave non conoscevano la spurchia, erano sane sane fino all’ultimo curnòcchiulu (baccello)…”.

Le pampene! (vanterie) – rise Franciscu – sempre una razza di pampanàri (spacconi) siete stati…”.

Ti dico che è vero, compare, che mi venisse pàntico (grande paura), un anno ero riuscito a fare le fave senza spurchia, tutti venivano a vederle alle Cupe e restavano con tanto d’occhi…”.

Tacquero, come se ognuno pensasse ai fatti suoi, cose di casa, errori dei figli, debiti con la putacàra (bottegaia), malattie improvvise. Crà, crà, crà…

Fu nonno Franciscu a riprendere il filo del discorso:

Sei tanto sapiente, ma scommetto che non sai chi è che buca la fava… Dai, dillo, che lo voglio sapere davvero…”.

L’altro ridacchiò e scorreggiò di nuovo, a lungo:

Ma che minchia dici? Certo che lo so, lo sanno tutti e vuoi che anche io non lo sappia? La fava la buca il favalùru (tarlo della fava)…”.

Poi, come ogni giorno, i filosofi discussero a lungo sul perché si dice “porti spurchia”, raccontarono ancora una volta la storia di quel furèse (contadino) detto Cavallo che odorava le femmine e fu virile fino a 100 e passi anni, di quel prete, Papa Cajàzzu, che si prendeva gioco del vescovo e seduceva le femmine e infine ripresero una vecchia filastrocca di quando zappavano uno accanto all’altro, nella taglia, per non sentire la fatica:

Uno diceva:

Scènnu vanènnu, maluni ccuiènnu…” (Andando e venendo coglieva angurie). E l’altro rispondeva:
Scia e vanìa maluni ccuìa…” (Andava e veniva e coglieva angurie). Crà, crà, crà…

E sono ancora là, davanti al fuoco dell’inferno che così tanto mi attira e ci fa fantasticare su com’è come non è, e lì troveremo i filosofi quando anche noi ci presenteremo a Caronte con la moneta in bocca sulla soglia dell’Ade, e ci aggiungeremo alla conversazione, perché, come dicevano gli antichi “il discorso è saporito” e dirò a mio nonno che so perché si dice “porti spurchia”.

Crà, crà, crà…

E lì staremo per l’eternità infinita, nella dimensione che da vivi ignoriamo ma che da morti è facile trovare, giri l’angolo e ci sei e ci afferra e ci porta qui dinanzi al un bel fuoco che arde perenne, finché ci sarà fuoco e vino e carne di cavallo, fave e piselli e cacio pecorino sulla giummanèa (ripostiglio) e culàcchi (storie) da raccontare.

Crà, crà, crà…

Francesco Greco

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