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“14 mesi all’inferno”, e ritorno

Un mondo a parte, con le sue regole, i riti, le contraddizioni, le morbosità, i personaggi, i misteri, i linguaggi. E le gerarchie. Gli “ospiti”, i bambini, erano all’ultimo posto, vittime predestinate. Nati in famiglie disagiate, con vissuti aspri alla spalle, oppure figli di emigranti che non potevano accudirli dovendo portare il pane a casa.  

Era un pianeta oscuro, particolare l’orfanatrofio degli anni Sessanta dell’altro secolo. Vere e proprie zone franche con le loro leggi dure, a tratti violente, non scritte. Dove il confine fra il Bene e il Male era soggettivo, impercettibile. Poteva accadere tutto sul ciglio di quel burrone.

Se un genitore voleva terrorizzare il figlio, bastava che dicesse: “Ti chiudo in collegio”, e diventava obbediente e mansueto.  

Molti bambini hanno subìto traumi difficili da elaborare, spesso li hanno segnati per sempre nella loro sfera affettiva e relazionale.

Spesso li hanno rimossi, ma a volte riemergono come iceberg dal passato e chiedono di essere messi sulla carta, di portare la propria tessera al grande mosaico della vita, di essere condivisi con una password pedagogica in tutta la loro scansione dialettica intrisa di un realismo che poco concede alla decodificazione.

14 mesi all'inferno di Roberto Russo

14 mesi all’inferno di Roberto Russo

“14 mesi all’inferno”, di Roberto Russo, Edinsieme, Terlizzi 2016, pp. 64, euro 10, (sapida prefazione di Renato Brucoli) ripropone, con una sensibilità delicata e dilatata, quel Novecento in bianco e nero partendo da un’esperienza autobiografica in un Salento rurale la cui economia autarchica sta per essere travolta dall’emigrazione, che porterà ricchezza e status, ma con costi sociali molto alti e sofferenze laceranti.    

Nel cuore del Novecento in bianco e nero, da poco uscito dalla guerra, l’io narrante infatti è condotto all’orfanatrofio dai genitori con la valigia di cartone in una mano e il biglietto del treno nell’altra. E già quando il bambino capisce quel che sta accadendo la scena è straziante, come tutti gli abbandoni.

Ma è solo l’inizio: lo aspetta una quotidianità fatta di cibo scarso, di punizioni corporali, di “prefetti” severissimi, di privazioni (finanche i quaderni erano centellinati), di chiaroscuri e strane attenzioni in cui gli educatori vestono i panni dei carnefici – almeno così sono visti dai bambini – e si aspetta con ansia la domenica quando qualche parente si affaccerà al portone dell’istituto, se non per condurlo a casa, almeno per portare qualche biscotto, che ai bambini pare la torta più buona del mondo.

Si sogna il mondo di fuori come se fosse l’Eden, tanto che il pensiero fisso è la fuga, e qualche volta riesce, ma la libertà è assaporata come un frutto dolcissimo solo per poco…

Con questo romanzo breve ma intenso e a suo modo lirico, denso di un pathos naif, Russo (Montesardo, 1954) prosegue una lettura del mondo sospesa tra pittura (le sue opere sono sparse in tutta Europa), poesia (“Nuvole”, 2000, tradotto in tedesco nel 2002 col titolo “Wolken”, “D’amore e d’ombra”, 2008) e narrativa (“Ritratti diversi”, 2005, “Il postino supplente”, 2012, tutti con Edinsieme), cui volendo possiamo trovare un comune denominatore: il desiderio di innalzarsi oltre le nostre misere vite, per ritrovare l’innocenza del cuore e dello sguardo, in cerca di un paradiso terrestre perduto, ma forse non per sempre e perciò a portata di mano.

Francesco Greco


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