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LIBRI. Memoria e radici: la Sardegna arcaica di Federica Murgia

Quel dolce, sensuale fluire della memoria, che da Omero a Proust e Garcìa-Màrquez ci seduce come un mantra delizioso e lirico, è la password per entrare nel mondo incantato di Federica Murgia ne “Il paese della rosa peonia” (Sa ‘idda de s’orrosa ‘e padenti), il Raggio Verde edizioni, Lecce 2015, pp. 64, euro 12 (collana “Storie e Natura” diretta da Giusy Petracca, progetto grafico di Antonietta Fulvio).

Il paese della rosa peonia” (Sa ‘idda de s’orrosa ‘e padenti)

Opera prima della narratrice di origine sarda, sposata col grande pittore Luigi De Giovanni (che firma la cover, “Paesaggio da Piero”, Dolianova 1992), vive sospesa fra la Puglia (Specchia, Salento meridionale) e la Sardegna, mentre è in gestazione il sequel, stavolta ambientato nella Puglia degli anni ‘40/’50, in cui si trasfigurano i ricordi della suocera, mamma Santa.

Sono quattro racconti messi già con grazia e leggerezza, ricchi di sfumature e chiaroscuri come affreschi, con lo sguardo trasognato di chi ama la vita, il mondo, gli altri: l’atteggiamento di chi, direbbe Hemingway, partecipa dell’umanità.

Il paesaggio, nella sua asprezza e dolcezza, sorprendente negli aspetti mutanti con l’incedere delle stagioni (siamo fra il Gennargentu e il Flumendosa), diviene protagonista del racconto, è un prolungamento dell’anima dei personaggi, Giorgio e Rosa, i loro bambini, gli animali (bello il maialino Hoehoe), le pietre, le piante, e poi i riti immortali, immutati, i silenzi e le parole antiche, la lotta quotidiana per la sopravvivenza con gli elementi della natura, il patrimonio di valori che regge “il microcosmo di Sant’Agilia”, così lo definisce in prefazione il genealogista Pino Ledda.

Perduti come siamo nella modernità, attaccati alle sue infide icone che ci omologano e ci rendono dei cloni (vedi i social, per esempio), il lavoro sulla memoria, le radici, l’identità, l’appartenenza è essenziale, per noi e per l’umanità, per non affogare nel mare del relativismo che cancella valori non soggetti invece a relativismi, per imporre mode alienanti e distruttrici, lontane dalla nostra sensibilità e percezione, modulate su disvalori imposti con la violenza e la volgarità della comunicazione.

Federica Murgia

Il rischio è che il mondo di ieri si smarrisca (e noi con esso), formattato dalla globalizzazione che muta la nostra vita e plasma il nostro animo, e questa è una prospettiva inquietante.

Romanzi come questi sottintendono anche un’operazione culturale essenziale, necessaria, poiché, se non sappiamo chi siamo stati, come potremo mai modulare ciò che vogliamo essere? Non per monumentalizzare un passato, una civiltà, una cultura pure pregna di contraddizioni, né per inseguire irriproducibili arcadie, ma per conoscere le nostre radici, metabolizzarle nel nostro dna, affinché non vadano perdute col loro “messaggio di dignità e di speranza” (ancora Ledda).

Sotto l’aspetto meramente letterario invece la Murgia deve essere, oltre che una scrittrice con la esse maiuscola (in cui convergono echi della sua conterranea Grazia Deledda), anche una grande ascoltatrice: l’affabulazione della sua terra, i racconti orali dei vecchi – oltre a lacerti di vissuto – rivivono ed emozionano in una prosa scintillante e viva che richiama i grandi narratori del Sud: da Corrado Alvaro a Verga, da Marotta a Rea.

La sua passione per l’arte dà ai bozzetti una forza maieutica che comunica al lettore quel senso di sacralità della vita, di religiosità laica di un mondo che batte nel nostro cuore, nel sangue che ci scorre dentro e con cui è giusto porsi in modo dialettico se non vogliamo soccombere alle mode interessate, alla solitudine leopardiana, cosmica che ci minaccia.

Francesco Greco


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