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Edipo re di una polis (e una civiltà) devastate

TUGLIE (Le) – “Porci, screanzati, bifolchi, maiali, assassini…”.
Possente, la voce dell’oracolo giunge dalle cupe voragini del tempo, dal cuore tremante di tutti gli uomini ostaggi del fato “fino all’ultimo giorno della loro vita”.

Vestito di stracci, avvolto in uno scialle nero, sguardo magnetico, gesti ieratici, si materializza all’improvviso nel pubblico: mangia semi di zucca aprendoli coi denti, li sputa e scaglia i suoi terribili anatemi, sugli dei e le loro perversioni, perfidie, seduzioni (testosterone era sempre alto nell’Olimpo e la fantasia al potere già prima del ‘68) e gli uomini che, illusi da potere e denaro, eccitati dal vigore della giovinezza, sfidano il destino, come se fossero i padroni della propria sorte.

L’oracolo vive sospeso fra passato, presente e futuro, fra sogni e visioni, a metà fra gli dei e gli uomini.

Il pubblico assiepato a piazza Asti (siamo nella rassegna del redivivo, prestigioso “Premio Leuca”, indetto dalla Pro Loco, presidente Vincenzo Corina, giuria presieduta dal giudice Oronzo Fersini), tace come avvinto da un incantesimo.

La luna osserva sospettosa, guardinga, affinché noialtri umani sfatti da passioni, pene, egoismi, non combiniamo troppi disastri. L’aria è pregna di un strano magnetismo, un’estenuata, sottintesa magia.

Quando Patrizia Miggiano (è lei l’oracolo, d’una bravura mostruosa) sale sul palco per continuare il monologo che si è riscritto introducendo nuovi elementi (partendo, ovvio, dall’immortale Sofocle) si capisce che sarà una serata in cui la Poesia (“p” maiuscola) toccherà vette alte, rarefatte, sublimi, che al pubblico donerà i brividi, e forse – accade di rado – scuotendoci con forza e dolcezza, ci porterà alla soglia delle lacrime.

25 secoli sono passati ma “Edipo re” è sempre vivo e attuale. Pier Paolo Pasolini lo riscrisse nei anni ’70 dell’altro secolo (“Affabulazione”), a sua volta, dandogli un’impronta soggettiva.

E’ la storia infinita dell’uomo che per aver sfidato Dioniso si ritrova addosso un triste destino, a cui vanamente cercherà di sfuggire. Tutto inutile: dormirà con la madre Giocasta, il figlio gli sarà fratello, Tebe soffrirà la peste e il declino, e poi…

Nell’immortale tragedia greca c’è una risposta anche per noi, al tempo di byte e fake-news (e sarà così anche fra 25 secoli): meglio l’understatement, non farsi soverchie illusioni, la forza della giovinezza è effimera, la ricchezza caduca, non badare troppo agli istinti primordiali dei popoli, non sfidare gli dei “dispettosi” (direbbe De Andrè). Poco e nulla possiamo, tutto è stato già scritto dal fato.

“La Calandra” è uno dei primi esperimenti teatrali nel Sud italiano ben riusciti.
Partì a Tuglie (Lecce, ma gli attori provengono da tutto il Salento: Gallipoli, Muro Leccese, ecc.) un quarto di secolo fa. Repertorio vasto, classico e moderno, testi impegnati e brillanti, sperimentalismi e avanguardia.

Oltre mille repliche sono il segno oggettivo di una professionalità indiscussa, premiata da un successo spalmato su tutto il territorio italiano, e anche extra moenia.

Con la strepitosa Miggiano (ben riuscita la regua di Giuseppe Miggiano), hanno recitato attori altrettanto all’altezza, superbamente bravi, eclettici, impegnati fra cinema e teatro: Donato Chiarello, Luigi Giungato, Federico Della Ducata (che firma anche le musiche armoniosamente fuse col testo e la recitazione), Anna Rita Vizzi, regia tecnica Andrea Raho, scenografia Piero Schirinzi (sua anche la grafica) e Andrea Raho, audio-luci Roberto Alfarano e Alessandro Elia, organizzazione Salvatore Selce.

Pubblico vario unto dal magma intenso della Poesia e finale con una calda standing ovation come, è dato ipotizzare, ad Atene e tutte le polis greche a partire dal 429 a. C (a quell’anno risale la prima rappresentazione). Corsi e ricorsi.

Bravi! Bravi! Bravi!

Francesco Greco


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