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Thomas e la solitudine dei numeri 1

Son trascorsi 120 anni, o giù di lì, ma cosa sappiamo in fondo della dea Eupalla, come la chiamava Brera? Dei suoi disegni astrusi, voleri e capricci? Poco e niente. E forse è proprio questo il suo fascino immortale: quando la palla rotola o vola ne cielo, chissà dove andrà a finire?

Il sentiero che conduce al suo santuario è sempre cosparso di misteri eleusini aguzzi come cocci di bottiglia. Ma intanto continuiamo a fare sacrifici per invocarne i favori: chi gioca, chi tifa, chi dirige, chi investe.

Pasolini giocava bene al calcio, Saba lo ha messo in qualche poesia, De Gregori diceva al suo bambino di non sbagliare il calcio di rigore, Ligabue si inventò “una vita da mediano”.

Intervistai lo scrittore latinoamericano (Uruguay) Eduardo Galeano, e mi disse: “Per una bella giocata andrei in capo al mondo”. E intendeva non solo i campi nobili dell’aristocrazia (del divismo, il business, il Pil, le azioni in Borsa), delle pay-tv e i fondi di investimento, ma anche quelli spelacchiati di periferia, della parrocchia, col tufo o la sansa odorosa, dove giocano i ragazzini poveri.

E chissà – fosse ancora vivo – cos’avrebbe detto Galeano del gol di CR7 in Juventus-Manchester 1-2, ritorno di Champions League. Arte pura.

Leggenda metropolitana vuole che Montanelli, sentendo arrivare il “the end”, mise su una videocassetta del Milan stellare anni ’90 (Dida, Maldini, Gullit, Van Basten).

Carmelo Bene declinò l’arte dalla poesia alla filosofia: se lo poteva permettere, era un genio. E capisci anche perché Riva non si è più mosso dalla Sardegna, Pelè dal Brasile.

“Senza riserve”, di Raffaele Pappadà, Musicaos Editore, Neviano, Lecce 2017, pp. 140, euro 13,00 (bella cover di Emiliano Buffo, foto di Giulio Paliaga, disegni di Andrea Luceri), ti fa sentire l’odore dell’erba che ti penetra nelle radici, la forza, l’energia (“non sarebbe mai avanzata una goccia di sudore, o sangue”), l’odore del pallone di cuoio di una volta, i tempi del mito, della favola, del sogno planetario: l’Internazionale di Corso e Mazzola, il Milan di Gre-No-Li e Rivera, la Juventus di Charles e Boniperti, Sivori e Altafini, Scirea e Bettega.

Sottofondo: le voci storiche che raccontavano quelle gesta epiche nell’altro secolo: Scusa Ameri e scusa Ciotti alla radio, Niccolò Carosio e Martellini alla tv in b/n, Gianni Brera (“Il Giorno”) e Giovanni Arpino (“La Stampa”) nei reportage sulla carta stampata, spesso dettati a braccio. Il fantacalcio era ancora lontano, come le scommesse clandestine che muovono miliardi.

Pappadà (Nardò, 1986, l’anno a maggio che il Lecce retrocesso vinse 3-1 all’Olimpico con la Roma levandole lo scudetto), laurea in Scienze Politiche, ha cominciato a Telerama nel 2006 dove dal 2010 ha diretto la redazione sportiva (ora è a Dazn), intrecciando elementi reali (il “nasone svedese” è Ibra rossonero e davvero il Milan al Via del Mare da 0-3 vinse 4-3, tripletta di Boateng) e frammenti fantastici, compone un puzzle denso di pathos, i valori (“dietro lo sport c’è rispetto, umiltà, voglia, dedizione, emozione”), i sentimenti e la psicologia che lo animano, la fragilità del campione, i meccanismi della vita di una squadra, la pressione dell’ambiente, la stampa, le curve, ecc.

Tutto ciò che al pubblico sfugge, o ne percepisce la minima parte che se ne racconta, e che tuttavia fa da mainstream e background alla “commedia umana” che è la vita di un club e sostanzia le carriere, l’apoteosi, il declino dei campioni e la vita di una squadra, città, popolo.

Entrando in profonda empatia con un mondo particolare, che ha le sue specificità, i suoi codici etici ed estetici, che al giornalista è assai famigliare, Pappadà racconta la storia di Thomas, il portiere figlio di un calciatore, l’amore finito con Cristina (“Mai aveva pianto così forte…”), il figlio Enrico, il rapporto edipico con la madre Piera (“Il suo orologio biologico era collegato con quello di sua madre. Poteva star lontano mesi, non sentirsi per giorni, ma lei avvertiva sempre i suoi segnali. Si chiese se quella chimica esisteva solo tra madre e figli…”) e con Elena, la commessa di cui è innamorato e che vuole diventare una stilista, intanto “metteva a bagno la sua frisa”.

In controluce si vede la figura di Massimiliano Benassi, romano, “Bravo, ma basso”, per alcune stagioni portiere dei giallorossi. Che infatti è intervistato alla fine.

Del romanzo, intriga la sovrapposizione fra più livelli del plot narrativo: la carriera, l’amore per la maglia, per i tifosi, per la terra (il Salento e le sue bellezze, dal barocco al mare di Leuca), per la donna. Per cui, quando Thomas regala un pallone al figlio, pare quasi di intravedere un’altra carriera in progress.

Il finale è amaro (“il campo ti prepara ad aspettarti di tutto, un po’ come la vita…”), e non solo per la retrocessione del Lecce nelle serie minori e la scansione torbida del calcio scommesse. Ma taceremo al lettore i dettagli, li scoprirà da solo.

Bravo Pappadà nell’evocare un mondo complesso, si direbbe meglio barocco, denso di chiaroscuri, polisemico, di emozioni genuine e sentimenti veri (incluse le belle amicizie che nascono fra campioni e giornalisti).

Prendiamolo come un buon auspicio per la marcia trionfale del Lecce di Liverani (e nesciu) verso la A, che ci manca da troppo, troppo tempo, come direbbe Sugo…

Francesco Greco


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