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Quando il fuoco bruciò la pietra e nacque la calce

RUFFANO (Le) – Tutto accadde per caso, ma le versioni accreditate sono due: costruendo un focolare su un terreno gessoso, i nostri avi preistorici videro che la pietra “cotta” dal fuoco, una volta tornata fredda, si disfaceva e successivamente unita all’acqua dava un curioso impasto.


Altra opzione: l’incendio di un edificio in pietra calcarea. Le pietre furono sbriciolate dal fuoco e una volta tornate fredde davano un materiale che, usato nelle costruzioni, era un collante molto efficace.
Dai Fenici, ai Greci e i Romani, la calce fu usata per ogni tipologia di costruzione.

Vitruvio (architetto e ingegnere romano) la cita nel suo “De Architectura” nel I secolo a. C. La chiama “pietra bianca”. Nel 160 a. C. ne parla anche Catone in “De fornace calcarea” e dà suggerimenti tecnici su come innalzare una fornace. Il naturalista Plinio il Vecchio la cita nel I secolo d. C.

Probabilmente ogni paese, in periferia, aveva la sua “carcara” (fornace), e ciò è testimoniato dalla toponomastica.
Un’invenzione decisiva per lo sviluppo della civiltà mediterranea, a cui Erica Viva (architetto nata a Brescia da padre salentino, Ruffano, il celebre chirurgo maxillo-facciale Enrico Viva), Michele Ciccarelli (ingegnere ambientale napoletano trapiantato a Brescia) e Venanzio Marra (architetto-artista che vive a Montesano Salentino, nel Leccese), hanno dato organicità e fascino in “Calcare” (monumenti per cuocere la pietra), Giorgiani Editore, Castiglione d’Otranto 2014, pp. 112, euro 10.

Abbondante la bibliografia e bellissimo l’apparato fotografico, che evoca un tempo non molto lontano, documenta una cultura legata al territorio e all’edilizia, testimonia l’organizzazione del lavoro alle “carcare” e le fasi della lavorazione, il costo degli operai e maestranze (detti “carcaruli” o “carcari”), il modo di commerciare il prodotto da parte degli ambulanti, le trattative per la vendita sui cantieri, ecc.

Quando le nostre case tinteggiate con la calce odoravano di fresco e di pulito e gli ambienti erano sani e sicuri e tutto era più puro.

Altra cosa la calce di oggi nei contenitori di plastica, diversa da quella dei nonni, a partire dall’odore, e dalla durata.
Suggestivo il glossario proposto dagli studiosi, da apotropaico a volte composte.

Sulla materia, è appena uscito sulla rivista “Controcanto” (edita ad Alessano), un bel saggio dello studioso Alfredo Massaro, che identifica le zone di massima produzione della calce nel Leccese: Taurisano, Presicce, Specchia, Galatone, Nardò, Galatina, Neviano, Novoli, Seclì, Surbo, Copertino.

Oggi le “carcare” sono spente, questione di costi soprattutto, ma forse potrebbero essere riaperte, perché il profumo di pulito delle nostre case appena ieri non ha prezzo e ci sarebbe mercato per un prodotto così semanticamente affollato.

Un libro modulato sulla memoria, in cui si respira il buon odore del nostro passato più bello e più sano. Che le nuove generazioni debbono assolutamente conoscere.

Francesco Greco


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