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“Camminando sulle foglie”, memoria del Novecento

Una storia lunga un secolo. Che comincia nel dopoguerra contadino, povero e patriarcale, autarchico, col protagonista Vittorio, scacciato dalla chiesa in braccia a sua madre perché strilla troppo e si conclude nel XXI secolo con la magica scoperta del logos, la parola scritta, una “musa” che gli permette di esprimere sentimenti, emozioni, dare corpo ai ricordi, affidare alla memoria il fiume di una vita intensamente vissuta.

E’ il mainstream di “Camminando sulle foglie”, di Vittorio Buccarello (Castrignano del Capo, 1945), Edizioni Il Convivio, Catania 2021, pp. 280, € 21 (con un emozionante corredo fotografico sospeso fra passato e presente).

Un secolo, il Novecento, in una terra arida, “tumara,” ma nonostante tutto generosa, il Sud d’Italia dove gli uomini condividono il poco che essa offre e sono felici, ma forse non lo sanno, un mondo tenuto insieme dalla fede, dai miti e dai riti della comunità.

Mentre quando poi arriverà il benessere, sapranno di essere infelici, ne avranno piena coscienza, perché esso porterà solitudine, alienazione, chiusura: la fine di quel mondo magico, incantato.

Un prezzo alto da pagare che cambia le vite di tutti, impregnandole di sofferenza, come un sorriso amaro.
In trasparenza, attraverso le scansioni autobiografiche del protagonista, si legge la complessa architettura sociale, politica, culturale, economica, spirituale, etica che regge questo universo contadino, dove il rapporto con la terra è ancestrale e intimo, da pari a pari, con i suoi mille segreti. Ripercorrendo pertanto tutti i topoi di un mondo a parte, il romanzo ha il prezioso valore di un documento storico.

Vittorio, l’io narrante, cresce giocando per strada, dove impara a stare al mondo, a conoscere gli altri, a relazionarsi con la società. E’ così che si cresce in fretta.

Apprende il valore del lavoro: guarda i “maestri” fare le case e impara i segreti del mestiere. Poi nelle fabbriche di mattoni. Ma appena ha le ossa dure, come tanti, anche lui prende un treno che lo porta in Svizzera (il padre è andato prima di lui per sostenere la numerosa famiglia), e quindi cambia il suo status.

Si confronta con un’altra cultura, quella europea, meno superstiziosa e più razionale, che lo arricchisce come uomo e lo apprezza perché sa fare tutti i lavori che gli offrono (come tutti i meridionali), anche se non crede a un futuro in terra straniera: le zolle rosse della sua terra e le pietre dure, gli ulivi maestosi e il mare calmo all’orizzonte sono sempre nel suo cuore e nella sua memoria.

Infatti torna per farsi la casa, mette su famiglia, costruisce quelle degli altri, poi diventa operaio nelle prime fabbriche di scarpe, custode delle bellezze architettoniche mentre coltiva la terra dei ricchi come faceva suo padre, anche se i rapporti di forza sono cambiati e il mondo della sua infanzia non c’è più, i ricchi di un tempo sono diventati poveri.

Buccarello appartiene alla ricca schiera degli scrittori neorealisti (da Verga a Silone, da Bacchelli a Pennacchi), la forza nuda di una prosa dolce e aspra, che narra il tempo quando la vita aveva una sua sacralità, il dolore della condizione umana e la speranza di un riscatto, oltre che nei fatti che espone e che ormai sono una pagina di Storia, sta nell’assenza di malizia letteraria. Solo così può comporre il suo mosaico tessera dopo tessera, come fanno gli uomini che sono artigiani e allo stesso tempo artisti.

Ciò non è una diminutio, al contrario è una password che gli consente di essere fedele alla realtà che ha vissuto in prima persona dal

Novecento a oggi e che – piccola storia che confluisce nel grande mare della Storia – per essere comunicata non ha certo bisogno di espedienti dialettici, ma deve essere catturata come acqua pura che nasce possente dalla fonte, luce accecante che spunta all’orizzonte al mattino.

Francesco Greco


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