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Il mio Natale dell’altro secolo

Quanto erano belle per noi bambini dell’altro secolo quelle solenni ma genuine festività natalizie di una volta. L’ansia iniziava già molti giorni prima di Natale. In ogni casa ci si organizzava, seppure in modo semplice e con piccole cose casarecce, per lo svolgimento di tutte le feste di fine anno.

Il profumo dei candidi gelsomini si spandeva in ogni luogo. Sembrava che fiorissero apposta per Natale, nelle campagne del sud Salento e nei giardini crescevano in grande quantità ed erano raccolti in abbondanza, ornando case e chiese.

Nella parrocchia l’altare era addobbato con questi fiori già da quando iniziava la novena, con tutti noi bambini che eravamo gioiosi per essere presenti a quelle funzioni serali.

Era bello cantare tutti insieme i canti dedicati a Gesù Bambino, in particolare “Tu scendi dalle stelle”, l’inno del Natale della tradizione che si cantava dappertutto, anche nelle scuole.

Il clima delle festività si spandeva nell’aria e nella gente come l’attesa di una vita nuova piena di speranza e di amore tra le persone che si rappacificavano rimuovendo qualche screzio avuto in precedenza.

Dai camini fuoriusciva il fumo aromatizzato di frittelle: pittule, purcidduzzi, cartellate e altre delizie come lo stoccafisso (pesce secco) alimento tradizionale per il cenone di Natale.

Questo veniva tagliato a pezzetti una settimana prima e messo a mollo per ammorbidirlo. Cibi che allora erano esclusività solo per Natale e Capodanno.

E poi la celebrazione della Messa solenne nella notte della vigilia, quando a mezzanotte in punto si scopriva da un drappo di stoffa bianca il giaciglio dove era adagiata la statuetta di Gesù Bambino; e subito partiva il grande applauso sia dai presenti in Chiesa che nelle case private dove anche gli abitanti aspettavano col fuoco acceso, che doveva essere abbondante, perché doveva riscaldare l’ambiente per quando partoriva la Madonna.

E rimanendo tutti svegli aspettando la mezzanotte, si trascorreva il tempo in vari modi, raccontando storielle, giocando, finché contemporaneamente all’orario stabilito, si ripeteva anche lì il rito dell’Avvento.

Intanto fuori nelle piazze del paese si era accumulata l’enorme catasta di legna di ogni tipo, e già un’ora prima era stato acceso il grosso falò (la focara o fuoco di Natale) con la gente intorno a festeggiare e cantare in allegria.

Cominciavano ufficialmente così le feste natalizie: quindici giorni gioiosi con giochi e scambi di regali che consistevano soprattutto in delizie e provviste di cose da mangiare, oppure indumenti da indossare.

I regali per i bambini e i ragazzi ancora non si donavano, perché si aspettava il giorno della Befana, Ma anche quelli consistevano per lo più in caramelle, cioccolatini e qualche carbone. Tutt’al più, per chi aveva qualche possibilità, c’erano le bamboline per le femminucce e delle piccole pistole da cowboy per i ragazzini.

Questi giocattoli erano talmente graditi che diventavano un pregio gelosamente custodito, e resistevano integri per anni come se fossero preziosità sacre.

Ricordo nelle scuole le poesie e le letture, che raccontavano tutta la storia della notte di Natale, quando Giuseppe, Maria e l’asinello giravano per Betlemme in cerca di un rifugio. E la poesia più declamata era “La Notte Santa”, di Guido Gozzano.

Altre poesie venivano insegnate agli scolari e imparate a memoria per recitarle in casa o nelle varie occasioni di festeggiamenti in comitiva.

Ma più importante per noi ragazzi era la letterina di Natale o i pensierini per i più piccoli che dovevano imparare a memoria, dettati dalle suore: maestre anche di asilo infantile, ai bambini che ancora non sapevano scrivere.

Mentre per noi che andavano a scuola era dettata dagli insegnati solo nei primi anni, successivamente, poi, ognuno la doveva scrivere da solo.

Essa aveva il prestigio dell’intimità tra figli e genitori, attraverso l’occasione della nascita di Gesù Bambino. Che oltre allo spunto di augurare benessere e salute, ci prestavamo a chiedere perdono di tutte le mancanze fatte a mamma e papà, con la promessa che d’ora in avanti saremmo stati più bravi e ubbidienti, promessa sincera solo per quel giorno…

L’ansia di leggere quella letterina che doveva rimanere segreta fino quando a non si era tutti a pranzo, seduti intorno al tavolo. Ognuno di noi bambini aveva la sua, che veniva nascosta sotto il piatto, e guardandoci in faccia già d’accordo per chi doveva cominciare per primo. Si aspettava il momento buono quando tutti erano presi dal mangiare. Scattava il via e subito il primo si alzava in piedi, prendeva la lettera da sotto il piatto e come se fosse una sorpresa, incominciava a declamarla nel silenzio più assoluto.

Finito di leggere, faceva il giro del tavolo partendo dai genitori, baciandoli per primi e poi man mano baciava tutti gli altri. Ognuno ripeteva lo stesso rito, ricevendo un regalino tipo un soldino o delle lusinghe di bravura dette con affetto e con amore.

Come con la letterina di Natale, si scriveva anche quella da leggere a Capodanno, col solito rito e l’intento di chiedere perdono per le mancanze fatte nell’anno vecchio e la promessa di essere più bravi e ubbidienti nel nuovo anno.

Finito di mangiare, sistemato tutto, ci si organizzava per giocare tutti insieme. Spesso si univano anche altri parenti o vicini di casa, più gente c’era, meglio si stava.

Ricordo i primi giochi più innocenti, quelli con i ceci arrostiti o con mandorle di pigne: consisteva nello stringerne un numero da uno a dieci nel pugno della mano e far indovinare al concorrente di turno il numero esatto.

La frase in gergo era: “Piriporto, quanti ne porto?”. Se si azzeccava il numero esatto, si prendeva quel contenuto, diversamente doveva restituirne altrettanto.

Oppure, sempre con gli stessi elementi, si giocava con tutte e due le mani chiuse a pugno, di cui una vuota e l’altra conteneva la posta in gioco,

La frase in gergo era: “Piripì-piripà, in quale mano sta?”. E come di logica, si vinceva o si restituiva altrettanto. Si giocava a turno, ognuno con le stesse opportunità.

La cosa più diffusa per i vari giochi in generale erano le mandorle delle pigne. Pigne che per tutto il mese di dicembre e oltre, se ne vendevano in quantità sia ai mercati con cataste messe per terra, che nei negozi di frutta. Il costo variava dalle 5 alle 10 lire in base alla grossezza del frutto.

Riguardo a questo particolare, un ricordo della mia infanzia mi è rimasto nella mente. Tant’è che l’ho riportato sul mio libro autobiografico “Camminando sulle foglie”.

Doveva essere il periodo dell’ultimo Natale trascorso a Salignano, quello del 1948: non so come capitò che trovai dei soldini in qualche parte nella casa, cosa rara e strana allora; i soldi erano come il sole di notte.

Fu la prima volta che rubai dei soldi in casa, qualcosa come cinque-dieci lire o forse più. Con quei soldi andai da qualche parte e comprai delle pigne, ma quando tornai a casa, apriti cielo!

Allora non capivo ma quei soldi erano un piccolo tesoro per i miei genitori, anche se erano pochi, servivano sicuramente per qualcosa di importante, magari per quel Natale; anche perché mia madre era incinta e prossima a partorire. Infatti, proprio la vigilia di Natale nacque mia sorella Dora, chiamata apposta Salvatora per quell’evento,

Era difficoltoso estrarre le mandorle dalle pigne, si dovevano indebolire i segmenti, buttando addosso delle grosse pietre, affinché si staccassero dalla resina per poterli aprire per cacciare tutte le mandorle che conteneva, poi si contava il numero che variava dalle cinquanta alle cento circa per ogni pigna.

Dopo si pulivano della crosticina di polvere dura e bruna ed erano pronte per giocare.

C’erano due qualità di pigne, quelle con mandorle dure e quelle con mandorle molli, ma si preferiva sempre quelle dure, più adatte al gioco, mentre le molli erano preferibili per chi le voleva mangiare o per usare i pinoli per i pasticcini.

Squadre di giovanotti, ognuno con una quantità di mandorle dentro una calza, competevano nei vari giochi.

Uno consisteva nel fare un cerchio per terra di circa 40 cm, di diametro, e da una certa distanza, lanciare una mandorla cercando di centrarlo il più possibile; il migliore centro vinceva tutte le mandorle lanciate.

Ma il gioco più frequente consisteva nel costruire per terra dei castelletti composti sia da 3 mandorle: 2 sotto e 1 sopra, o da 6: sistemate 3-2-1. Ognuno aveva il suo castelletto che veniva sistemato in fila orizzontale. Poi i concorrenti si posizionavano a uguale distanza, si estraeva chi doveva tirare per primo e con un’altra mandorla che oltre a essere più grossa, era levigata da un lato fino al pinolo interno per toglierlo svuotando il guscio duro riempiendolo di piombo fuso, finché fosse stato pesante per meglio colpire e abbattere l’obbiettivo. Si tirava a turno e ognuno vinceva le mandorle crollate.

Mentre in casa, per estrarre le mandorle, si usava mettere le pigne a ridosso del fuoco nel camino, finché col forte calore, la resina si bruciava e i segmenti si aprivano da soli e allora si estraevano le mandorle con più facilità. E dopo averle pulite strofinandole negli stracci, anche con queste si giocava in casa al posto dei ceci arrostiti.

Questi semplici giochi erano frequenti in tutte le case per l’intero tempo delle festività natalizie. Ma anche le carte da gioco si prestavano al caso. Spesso per noi ragazzini erano quei mazzetti di carte economiche, a taglio piccolo. Si giocava in diversi modi. A mazzetto era il più frequente, in modo che potevamo giocare tutti insieme. Per la posta, erano le solite mandorle quando i giocatori erano misti, piccoli e grandi, mentre con le carte grandi normali giocavano i grandi, e loro usando i soldini, 5 o 10 lire.ù

La tombola giunse qualche anno dopo la mia infanzia.

Questo nuovo gioco molto gradito, prese subito piede nei raduni organizzati dalla Parrocchia o altre associazioni in diverse serate.

Finché pure nelle case private divenne il gioco preferito rispetto agli altri giochi precedenti. Spesso per segnare numeri si usavano i fagioli o i chicchi di grano e per le vincite inizialmente erano le solite mandorle, finché poi i soldi diventarono più disponibili e seducenti.

Ma in seguito arrivarono le prime radio con i giradischi. E quei giochi di prima cominciarono a perdere interesse.

Quelle poche case che possedevano la radio si riempivano di gente, grandi e piccini. Lì si ballava, si cantava senza distinzione di età, affascinati dalla misteriosa novità, attirando tutti per acquistare sempre più radio, finché in poco tempo non mancava in nessuna casa.

Finiva così l’era dei giochi innocenti e genuini che ci riempivano il cuore di gioia e la mente di soddisfazione. Sostituiti dal fascino degli apparecchi tecnologici che aumentando in modo veloce portavano l’innovazione sempre più sofisticata, fino all’invasione della tecnologia che in poco tempo ha sostituito la nostra naturalezza e inquinato anche la mente più pulita e l’innocenza dei bambini. Risucchiati tutti nel vortice della dipendenza dei marchingegni che addormentavano i cervelli rendendoci strumenti di consumo attraverso la pubblicità, che ci provocava sete e ancora provoca continue esigenze di cui non possiamo più fare a meno, nonostante ci lasciano comunque inappagati e inermi.

Ora, anche se le feste natalizie sono sempre delle solennità, danno solo lo stimolo al consumo sempre più evoluto che ha prevalso e al raduno nelle famiglie senza distinzione di età. Costrette a separazioni generazionali che spezzano l’armonia anche nella stessa famiglia, oltre che tra giovani e vecchi. Facendo così subentrare la solitudine nelle case e l’amarezza nell’animo, peggiore della miseria economica dei tempi passati, che nonostante tutto si superava nell’unione che riempiva lo spirito di sicurezza, di gioia vera, affetto, allegria e amore de che lasciava tracce indimenticabili.

Vittorio Buccarello


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