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Le radici nel cuore e nella memoria

Signora Lina… signora Lina… percè no te fermi stammane cu nne dumanni? Ssettate ca voiu te cuntu le cose vecchie de la mamma mia e de la nonna!…”.

In quest’urgenza, quasi un’invocazione, c’è il concept del delizioso libro di Lina Corciulo, si è sentita rivolgere per anni dalle vecchie del suo paese, Salve (Lecce) e che si sfoglia con delicatezza e somma gratitudine.

La scrittrice parte da un assunto: l’importanza della memoria, la sua meticolosa ricostruzione, per impedire ogni lacerazione dell’immaginario, che renderebbe vulnerabili le generazioni future senza alcun ancoraggio individuale e collettivo, etico, culturale, civile.

Nulla deve andare perduto, sembrano pensare le anziane divorate dall’avanzare del tempo, e serve una testimone che raccolga e ordini sulla carta i materiali affinché nulla di quel mondo vada perduto: miti e riti, persone e personaggi: da Ernesto il postino a Epifania, nata ovviamente iI 6 gennaio (1900), Serafino il sagrestano e Ninu Zummallinu. E poi preghiere, epitaffi, come ci si sposava e come si moriva. Tutta la spiritualità, la quotidianità, il lavoro, la gioia, la speranza il dolore del mondo di ieri prima che calasse la mannaia della damnatio memoriae.

Il mosaico deve essere ricomposto per essere trasmesso, nella sua ricchezza e contaminazioni, a chi verrà dopo, affinché costruisca il futuro su basi solide.

Spinta anche dall’amica Annarita Ferilli, nella sua breve vita (è mancata nel 2021), Lina ha capito che per lavorare in modo efficace doveva dotarsi di un metodo. E lo spiega Pasquale Ortenzio (il marito) nell’introduzione: “Memoria prodigiosa, rigore scientifico, innato metodo analitico, passione sconfinata: questi gli strumenti che utilizza per le sue ricerche e i suoi studi”.

E questo è il background de “Le radici nel cuore”, di Lina Corciulo, Youcanprint, Lecce 2023, pp. 164, euro 20,00, a cura di M. Pasquale Ortenzio, in collaborazione con Lorenzo Cirillo, Vito Lecci, Roberto Negro, le foto della stessa autrice e dall’archivio privato di Aldo Simone e SalveWeb.it (che con il periodico parrocchiale “Salve saluta” ha ospitato molti dei racconti proposti).

”Un abisso di racconti” su cui riflettono, oltre a Ortenzio e Negro, don Marco Annesi (Parrocchia San Nicola Magno, Salve), don Biagio Orlando (Parrocchia San Lorenzo martire, Barbarano), il sindaco della città Francesco Villanova, Sigfrido Corciulo, Antonio Lupo, Nicola Febbraro e Anna Lucia Nicolì, Dina De Blasi:

Oltre ai racconti orali, la studiosa ha lavorato nelle biblioteche e gli archivi parrocchiali, dove i documenti non mancano ma spesso sono illeggibili. L’arco temporale è racchiuso tra il 1900 (con ovvi ancoraggi al 1800) e il 1960, “quando la vita, che per decenni e decenni si è ripetuta sempre uguale, improvvisamente cambia”.

Infatti il latifondo si parcellizza, la nobiltà si nebulizza, i paesi (anche Salves) si desertificano causa emigrazione, intra ed extra moenia. Ci sarà sviluppo, ma i costi sociali e umani saranno pesanti: la famiglia si frantuma, la memoria si atomizza, i valori entrano in un cono d’ombra di relativismo.

Con passione Lina ricostruisce quel mondo attraverso le voci che si spengono e le carte che trova. Eventi e fatti di cronaca (l’alluvione del 1957 per esempio), usi (come ci si sposava), preghiere, perfino epitaffi di un mondo retto da un’energia primordiale e una spiritualità ancestrale.

“E’ una terra magica la mia: aspra, dura, difficile; è una terra di contrasti e paradossi che stordiscono e disorientano ma che allo stesso tempo avvincono e ammaliano come il canto di una sirena che non ti lascia andare via…”.

Lo stile narrativo è sospeso tra la fiaba e la tragedia greca, la pietas umana e il pathos, il senso di comunità, di appartenenza, di condivisone del poco che c’era. E sullo sfondo le tradizioni e le superstizioni che tenevano unito il popolo.

Per dire, pochi sapevano che all’ingresso del cimitero, “dietro le tombe gentilizie, c’era una striscia di terra disseminata di piccole pietre tombali con incisi i nomi di quanti vi erano sepolti. Davanti ad ognuna ardeva una lucerna ad olio. All’inizio di questa striscia un insieme di croci di legno biancastre; ognuna adornata da una piccola corona di fiori in rame e con, sul lato corto, una scritta nera e sbavata: “ignoto”. Indicavano i corpi dei soldati morti nell’affondamento di una petroliera nel 1943 e di altri che il mare, per una confluenza di correnti, aveva restituito in località “lu Piezzu” e “Cabina”. C’è chi ricorda che lì, durante la Seconda guerra mondiale, una donna imponente tirasse fuori dal mare i cadaveri: due alla volta. Arrivati chissà da dove, irriconoscibili e non identificabili. Si racconta di una mamma venuta dal foggiano che, avendo saputo dell’affondamento sulle coste di Salve della nave sulla quale era imbarcato il figlio, era venuta per cercarne notizie; le fu riferito che non c’erano stati superstiti e che erano stati ripescati solo cadaveri a cui era stata data sepoltura nel nostro cimitero. Disperata e commossa vi ci volle recare e, vista la cura con cui le sepolture erano state disposte, pur non potendo conoscere la tomba del figlio, ringraziò con le lacrime agli occhi i salvesi per la pietà che avevano dimostrato. Alla fine del viale d’ingresso, la Cappella delle Anime Sante; sul suo lato destro c’era un pezzo di terra incolta chiuso da un alto muro di cinta e da una edicola gentilizia; vi trovavano sepoltura, senza segni di identità, coloro che erano morti senza ricevere i Sacramenti. Così separati: dietro, vicino alla Cappella, venivano seppelliti “l’ancili ca s’erane brusciate l’ali” poiché morti con la macchia del peccato originale; erano i bimbi nati morti o deceduti subito dopo la nascita senza Battesimo. A seppellirli erano i padri. A volte, durante le visite ai defunti, accadeva che i bambini andassero su quello spazio ma venivano subito redarguiti: non si poteva calpestare quella terra perché sotto c’erano “l’anime de lu Limmu” (Limbo). Davanti, vicino alla tomba gentilizia, i “dannati” trovavano requie in una fossa comune. Si scendeva giù con una scala di ferro a pioli conficcata nel muro. Accoglieva i corpi dei suicidi, dei morti ammazzati e di quanti venivano trovati senza vita nei campi o sulla spiaggia, accomunati nel non aver ricevuto l’Estrema Unzione. Portati frettolosamente al Cimitero all’imbrunire, in un silenzio angosciante, senza rintocchi di campane a morto e senza entrare in Chiesa”.

Questo era il mondo di ieri, prima che il mondo impazzisse, il figlio uccidesse il padre, il marito la moglie e branchi di maiali si avventassero su una ragazzina che, a dire del giornalismo spazzatura, era colpevole di aver bevuto una birra.

Un mondo che non riconosciamo più e che ci fa essere grati a Lina Corciulo, alla memoria, per averci detto chi eravamo un secolo fa.

Francesco Greco


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