La cripta di Santa Eufemia in Tricase
A Tricase e precisamente a Sant’Eufemia, una volta frazione ora rione dell’estesa cittadina del Basso Salento, è presente una cripta detta del Gonfalone. Ancora solitaria nella campagna, infastidita quasi dall’asfalto che porta da Sant’Eufemia alla strada per Alessano, la cripta presenta al culto dei fedeli una Madonna bizantina adornata da un settecentesco altare. Delle prese d’aria consentono la respirazione dell’ambiente sottoposto. La costruzione doveva essere ben mimetizzata e il piccolo campanile è certamente d’epoca recente. Del resto, la natura della cripta serve al nascondimento, al non essere vista.
Il 22 di agosto si svolge nei pressi della chiesetta, tuttora aperta al culto, una fiera e vi convergono le genti della zona. Anche questa è però un’usanza non troppo antica rispetto all’età della cripta. Di dove alloggiassero i monaci non rimane traccia. Lo spazio interno, estremamente umido per le infiltrazioni d’acqua, era ed è sorretto da numerose colonne. Si narra che sia impossibile contarle tutte, probabilmente, si potrebbe aggiungere prosaicamente, a causa della disposizione non regolare delle stesse. I muri e le colonne erano una volta completamente affrescati. Naturalmente il correre del tempo e l’incuria degli uomini e la persistente umidità dovevano aver seriamente danneggiato e deturpato gli affreschi sicché la stupidità umana pensò bene di ripulire il tutto, eliminando le immagini superstiti, con una bella imbiancatura. E così svanì quasi ogni traccia dell’antico splendore. A tutto questo aggiungasi furtivi “prelievi” di immagini residue e si aggiunga pure la misteriosa scomparsa di alcune colonne (si vede chiaramente dove fossero) e la loro sostituzione con altre più rozze. Non abbiamo notizia che sulle sparizioni siano state svolte indagini particolarmente approfondite.
La chiesa era certo nel cuore degli abitanti di Sant’Eufemia, ma poco era stato fatto per conservarla. Solo in anni non lontani si è pensato di difenderla davvero dalla umidità e dalla dissacrazione dei curiosi di passaggio. E si è cercato di porre mano ai ripari. Intanto le dicerie popolari non erano venute mai meno e si favoleggiava di cunicoli che collegavano la cripta alla celebre abbazia del Mito che si ergeva lontano, verso il mare. Abbazia di gran fama una volta e miseramente rovinata, definitivamente offesi i miseri resti da una strada che ne ha tagliato le parti, mentre si lasciano sparire gli stemmi e crollare le strutture superstiti. C’è effettivamente, in chi si affaccia a contemplare le rovine dell’Abbazia, peraltro proprietà privata, un senso di abbandono, di impotenza verso un passato che non si è voluto né conoscere né conservare. Dei cunicoli leggendari nessuna traccia. Temevano i monaci bizantini le incursioni lombarde e quelle saracene e probabilmente dei cunicoli esistevano davvero e servivano a nascondersi nella bisogna. La lunghezza eccezionale degli stessi era frutto della fantasticheria popolare, capace di dare misure spropositate al reale.
Ora, se l’abbazia del Mito giace abbandonata a se stessa sì che si può seriamente temere una definitiva scomparsa del poco rimasto, a meno che non si faccia qualche pressione per l’intervento dei Beni Culturali, la cripta del Gonfalone è stata, per quanto possibile, risistemata e si è riaperto un passaggio destinato, forse, a collegare il luogo della preghiera con le celle dei monaci. Salendo dalla cripta a sinistra, per la nuova apertura, è vedibile una specie di passaggio senza sbocco. L’inizio di un cunicolo? Non è certo facile saperlo. Il danno compiuto dal tempo è notevole e non si può ricostruire come se le cose fossero intorno all’anno Mille.
Fuori della cripta lo sguardo si allarga per la vasta pianura. Non il senso chiuso e l’oscurità e l’oppressione di un infinito che schiaccia inesorabilmente il finito: continuo mememto mori e ritorno alla terra. Fuori la luce del sole, degli ulivi portatori di pace e ancora poche case. Probabilmente la vegetazione era secoli e secoli fa più fitta, meno regolare. Il luogo della preghiera si scorgeva a stento. Forse non si vedeva affatto. Certo vi doveva essere un sentiero che conduceva alla cripta e intorno doveva regnare una gran pace. All’interno le numerose colonne, le ieratiche immagini bizantine, il volto della Madonna col Bambino, il cunicolo, i passaggi, il salmodiare dei monaci dalla lunga barba. In un luogo antichissimo dai confini spaziali e temporali incerti tutto è possibile sia accaduto. Tutto è possibile pensare.
Ma a niente, se non ad arrivare presto, pensava in un giorno ventoso di maggio il monaco Giovanni avviandosi verso la cripta. Proveniva dalla ricca abbazia del Mito e l’abate lo aveva mandato alla cripta a prestare cure ai pochi monaci lì rimasti. Da tempo ormai non giungevano le offese dei Longobardi né le vele saracene imbiancavano l’azzurro mare provocando il riparare nell’interno di uomini, donne e bambini affinchè non diventassero bottino di qualche pirata. La vita invece procedeva lentamente e stancamente. I bifolchi continuavano a lavorare la terra e ad aiutare, nelle loro possibilità, gli uomini di Dio. Non c’erano né imprese eroiche né grandi martirii. Non c’era soprattutto chi narrasse la storia di quei giorni e quindi la consegnasse ai posteri. Del resto perché narrarla?
Il monaco Giovanni camminava di buon passo nello sconnesso e impercettibile sentiero che tagliava la piana trapuntata di olivi che sembravano persone vive protese in atti diversi. Era un uomo di Dio e di studio e si era informato della lotta iconoclastica voluta da Leone III (717 – 741), contro cui si schierarono il patriarca Germano, il papa Gregorio II e il teologo ( e poi santo) Giovanni Damasceno per il quale l’immagine sacra svolgeva un ruolo mediatore nel senso neoplatonico, sì da giovare alla dottrina della salvazione. Nel 730 il patriarca Germano veniva destituito, ma il nuovo papa, Gregorio III, condannava pubblicamente l’iconoclastia. Solo nel 787, con il Concilio di Nicea, il settimo ecumenico, essendo imperatrice di Bisanzio l’astuta Irene, fu riaffermato il ruolo del culto delle immagini.
Tutto questo sapeva Giovanni e sapeva pure che gli iconoclasti non erano del tutto spariti. Sapeva dei contrasti tra Irene e il sanguinario figlio di lei Costantino VI, fatto poi accecare (797) dalla madre nella sala della porpora dove ventisette anni prima era nato; sapeva della uccisione del giovane basileus e di Irene veramente basileus, non basilissa; sapeva della congiura di palazzo che nell’802 aveva rovesciato l’imperatrice costringendola a riparare in un monastero.
Ma erano notizie vaghe e avvolte da varie dicerie, appartenenti ad una corte imperiale ormai lontana, irraggiungibile. Sapeva anche, ma poco, dei Brunali, in cui la sera ci si dava alla gioia dei banchetti e della carne, ma erano notizie della capitale d’otremare su cui il santo monaco non voleva neppure chiedere né ovviamente indagare. Più certa, come memoria storica, la vicenda di Ottone II di Sassonia che aveva sposato la principessa Teofano e che, vincitore dei Musulmani prima, era stato da questi sconfitto a Stilo nel luglio del 982, come sapeva del sogno della Renovatio imperii del figlio Teofano, l’imperatore Ottone III.
In realtà, della storia bizantina e di quella germanica, dei due imperi cioè che si contendevano il mondo e contro i quali era sempre vigile e minacciosa la presenza degli infedeli saraceni, al monaco Giovanni importava assai poco. Era importante, piuttosto, conservare la vita in una terra aperta alle scorrerie e indirizzarla al servizio del Signore.
Quando giunse alla cripta era ormai buio e nessun segno di vita, se non lo svolazzare di qualche pipistrello, si faceva sentire. Le celle dei monaci erano vuote, né vi erano luci. Giovanni cercò di farsi sentire, ma con discrezione per non esporsi troppo ai fantasmi della notte o alla lama di qualche sbandato in cerca di cibo e di tranquillità. La prudenza spinse Giovanni ad attendere la luce del domani coprendosi alla meglio e rannicchiandosi sotto i ruvidi panni. Avrebbe sonnecchiato quanto basta per distinguere il movimento delle arvicole dal fruscio dei serpenti, incuriosito nell’animo suo da quel silenzio innaturale che poco si addiceva ad un luogo tradizionalmente aperto ad accogliere con volto lieto e con parole di fede il buon viandante. Il nuovo giorno portò infine il debole chiarore e il calpestio dei passi del monaco Teofilo, che saliva dalla cripta ove anche lui aveva dormito alla meglio. Teofilo, dalla grigia barba scomposta, dagli occhi ancora stranulati, dall’incavato volto graffiato, non sembrò troppo meravigliarsi del nuovo venuto, di cui poco ormai importava. Disse che il monaco Simone, per la malattia del quale Giovanni era stato inviato dall’abate, era morto e che l’altro compagno Stauracio ne era rimasto sconvolto e, a rito funebre compiuto, come posseduto da forze maligne, s’era scagliato contro le immagini sacre che ornavano la cripta, incapaci secondo lui di proteggere l’amico, urlando per di più che erano immagini false. Sicché, dinanzi alla bestemmia e ai gesti sciagurati, Teofilo era dovuto intervenire e ne era nata, lì nel luogo sacro, una rissa durante la quale Stauracio avrebbe sbattuto la testa contro una colonna ed era spirato con il cranio fracassato. Teofilo, si appressava ormai la sera, aveva trascinato il corpo senza vita in un cunicolo presso la cripta e in quel luogo lo aveva lasciato così alla buona. Poi, stanco, si era chinato presso l’icona della Madonna per pregare, per chiedere perdono, per difendere l’icona qualora il maligno fosse apparso sotto altre sembianze. E in tale posizione, dimentico di ciò che fuori accadeva, l’aveva raggiunto un difficile sogno portatore di oscure visioni.
Tutto avendo sentito con sgomento e avendo dato una rapida occhiata al cadavere di Stauracio, pensando tra sé a quegli improvvisi impulsi omicidi che le forze del male fanno talvolta scoppiare anche negli uomini buoni quando l’animo cede al dolore, Giovanni decise che nulla doveva esser detto ad estranei, che il corpo dello sventurato sarebbe stato immediatamente sepolto e che avrebbe riferito all’abate. Ciò detto ripartì dal luogo di buon passo come era venuto, confondendosi l’odore dei suoi abiti sudati col profumo delle violette solleticate dal vento.
Di ciò che era accaduto nulla più si seppe. Chiedere degli errori degli uomini, di come in essi possa trovare posto la follia diabolica, è distogliere la mente dalle preghiere all’Eterno. Alla gloria del Signore possono giovare le stupende icone bizantine presenti in tante chiese del Salento. Immagini della Madonna celeste regina con il pargoletto divino. La Madonna col Bambino. Regina ma madre. L’eterno femminino a cui sempre e comunque rivolgersi, come ben avrebbe saputo dire il sommo poeta:
Vergine madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’eterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l’amore
per lo cui caldo nell’etterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi merdian face
di caritate, e giuso, intra i mortali,
se’ di speranza fontana vivace.
Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia ed a te non ricorre,
sua disianza vuol volar sanz’ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fiate
liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontade.(Paradiso, XXXIII, 1 – 21)
Il precipitarsi del tempo rovesciò sugli abitanti della zona altri problemi, ben diversi da quelli spirituali. Il feudalesimo portò a suo modo una certa stabilizzazione e sicurezza, ma non per questo svanì la paura della fame, della sopraffazione, della guerra, della morte. Vennero però meno i solitari luoghi di raccolta dei religiosi. Colpita da inarrestabile declino l’abbazia del Mito; destinata a diventar quasi chiesa di campagna la vetusta cripta basiliana.
E col passare del tempo anche le forze del male trovarono altri più comodi luoghi e altre menti ove allignare. Non più negli scoramenti contro l’inevitabile e nei raptus violenti e inattesi, ma negli intrighi dei potenti volti a prostituire la parola e l’onore per gli interessi privati, lì ebbe a svilupparsi la mala pianta, dai frutti però tanto seducenti.
Ma il timore e la curiosità verso un passato remoto e invalicabile rimase comunque tra i popolari e tra coloro che si erano fatti avanti con la forza dell’inganno e del denaro, ma ai quali la luce della scienza era rimasta estranea. Così, negli anni, i luoghi di culto, soprattutto se solitari o abbandonati, furono visti come sedi di misteri e di tesori, sedi contese dalle forze del bene e del male. Non mancavano certamente riferimenti illustri. Così il vescovo e santo Gregorio di Tours narrava che il vescovo degli Alverni Eparchio aveva, una sera, trovato seduto in chiesa, sulla sedia episcopale, il diavolo in persona. E se il timore investiva i luoghi sacri, non meno dubbiosi si era verso gli uomini di scienza in quanto tramite loro potevano parlare gli spiriti maligni.
“Qualora si alzi in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio e il segno e il prodigio annunciato succeda ed egli ti dica: Seguiamo dèi stranieri, che tu non hai mai conosciuto, e rendiamo loro un culto, tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore; perché il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima” (Deuteconomio, XII, 2 – 4, trad. it. dell’ed. uff. CEI, Roma 1974).
Il che, al di là delle parole bibliche, poteva talvolta, per gli insipienti, tradursi in comodo alibi per non ascoltare le parole dei dotti, preferendo obbedire alle autorità costituite.
In verità il parlare di cunicoli, di passaggi segreti, ecc., suscitò in taluni della buona gente di sant’Eufemia il sospetto che nella cripta giacesse un tesoro nascosto, l’occhiatura appunto, tesoro sostanzialmente diabolico, comunque celato nella notte dei tempi dai gelosi monaci. Di questa presenza estranea, al di là della dimensione del quotidiano, sembrava esser prova il municeddu, lo spiritello malvagio, l’incubo notturno che opprimeva nel sonno l’uomo stanco sconvolgendo la mente e il corpo e che aveva fatto scrivere , in Le fou, ad Aloysius Bertrand:
“La lune se peignait ses cheveux avec dèmèloir d’èbène qui argentait d’une pluie de vers luisants les collines, les près et le bois.
Scarbo, gnome dont les trèsors foisonnente, vannait sur mon toit, au cri de la girouette, ducats et florins qui sautaiente en dacence, les pèces faussess jonchant la rue”.
E l’idea fissa delle monete rotolanti tra le mani ingorde era penetrata nella mente, e qualcuno, la cui avidità aveva spezzato ogni rispetto religioso, aveva scavato a più riprese dietro l’altare della Madonna, credendo che quello fosse il luogo più sicuro ove celare tesori. Nulla però era stato trovato e le diverse colonne, nella casualità della disposizione, sembravano moltiplicarsi a mo’ di labirinto, quasi ad impedire la retta strada, quasi che il loro numero mai collimante volesse stordire la mente del profanatore.
Lontano l’abitato di Sant’Eufemia dai pochi fuochi, dalle viuzze contorte che tuttavia s’adunavano presso il pozzo di San Nicola poco distante da una cappella ricostruita a metà Ottocento e dispensatore, alla popolazione assetata, di acqua quant’altra mai buona: l’abitato di Sant’Eufemia dagli ampi e accoglienti e movimentati cortili ove scale di pietra si accavallano su altre scale di pietra un contorto e pur naturale movimento e su i cui casolari si stagliava la bagliva, caratteristico fumaiolo; l’abitato di Sant’Eufemia intanto dormiva e Morfeo raccoglieva gli oscuri desideri dei mortali e li trasfigurava e li ripresentava sotto altre vesti affinché gli uomini, cercando di risolvere gli enigmi, accentuassero la sofferenza e l’infelicità.
Altre volte invece l’atto vandalico era fine a se stesso o serviva, più grettamente, a trafugare qualche pietra lavorata affinchè questa divenisse blasone per gli sciocchi, illusoria testimonianza di un passato mai avuto.
Ora, nella campagna a notte non danzano più i folletti, né le paiare sono illuminate. Sant’Eufemia è saldamente congiunta a Tutino e a Tricase e non c’è più traccia manifesta della diffidenza, se non dell’astio, che separava e contrapponeva gli abitanti delle borgate. Estesasi Tricase, tutto è stato assorbito nel processo di espansione e di unificazione, sicché le differenze si sono attenuate, le tradizioni si sono indebolite e il passato è apparso ancora più lontano e inaccessibile ad una gioventù protesa verso il nuovo millennio e incapace di trovare una unità storica con la realtà da cui tuttavia è scaturita.
La distanza dall’abitato ha per ora consentito alla cripta del Gonfalone di conservare una sua unità e una sua fisionomia, senza essere annullata nel vortice di casermoni di cemento senza stile e senza anima. Nello spazio adiacente sosta, a sera, qualche auto con delle coppiette non più furtive.
“Non si crede più a nulla!”, borbottava il contadino arando nei pressi della cripta, scostando con prudenza una siringa. Provvidenziali catenacci ora chiudono la chiesetta agli sguardi indiscreti. L’umidità interna, dopo la copertua con le chianche, il basolato, all’esterno, si è attenuata e lungo i muri si intravedono i resti delle antiche immagini, degli antichi colori. C’è anche quel mezzo cunicolo che non conduce a nessuna parte e che pare fatto a bella posta, come ad accogliere il corpo di qualcuno, come se qualcosa, nei tempi lontani, lì fosse accaduto, come se qualcosa avesse avuto bruscamente fine… Ma sono problemi che riguardano pochi, anzi pochissimi e nessuno ha certamente più voglia di scavare o di pensare all’iconoclastia.
“Un mondo è finito”, notava l’animatrice turistica, mentre i lunghi capelli neri svolazzavano fuori dell’auto in corsa. “No, è solo cambiato”, aggiungeva il giovane compagno. “L’attrazione verso la perdizione si è semplicemente spostata altrove”.
Hervè A. Cavallera
In “Lu Lampiune”, A. V, 1989, n. 3 – Dicembre, pp.191 – 194
Questa leggenda fa parte di una raccoltà di testi e aneddoti della stroria di Tricase, ripubblicati in un’unica soluzione nel testo “Tradizioni Popolari a Tricase” (2002), Edizioni dell’Iride, a cura di Francesco e Carlo Accogli