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Le Grotte Romanelli e Zinzulusa

Un Salento che non ti aspetti: questa è la visione magica della nostra terra consegnataci dalla “Guida alla Natura della Puglia” del prof. Franco Tassi. Una voce autorevole e prestigiosa che dà corpo e voce ad una terra preistorica, facendoci rivivere un Salento “occupato” da bisonti, elefanti, pinguini e stambecchi…


Tutto il percorso adriatico salentino presenta aspetti panoramici di grande bellezza e interesse, ma la caratteristica che spicca maggiormente, e che ha reso queste località ovunque famose, è la ricchezza e varietà delle grotte, soprattutto marine. Sono veri e propri scrigni di tesori naturali, di rivelazioni storiche, di fenomeni insoliti attorno ai quali fioriscono storie e leggende, e di cui solo una parte è stata finora esplorata adeguatamente.

Poco a sud di Capo d’Otranto, presso Porto Badisco, la grotta del Cervo, scoperta nel 1971, contiene circa tremila pitture elaborate dagli ignoti artisti del neolitico in ocra rosso e guano nero di pipistrello, da cui è possibile comprendere e ricostruire molto dell’ambiente e della vita di migliaia di anni or sono.

A Santa Cesarea, si trovano le cavità più importanti intorno alle quali circolano antichi racconti di spettri e di streghe: le grotte Gattulla, Fetida, Solfurea e Grande, ricche di acque e fanghi; la grotta Palombara rifugio di centinaia di colombi selvatici; le grotte Verde e Matrona, la Rotondella e la Rotonda; e ancora le grotte del Diavolo, delle Tre Porte e di cala dell’Elefante o le altre, ancora poco note, affacciate sul mare di fronte a Tricase. Ma soprattutto due, la Romanelli e la Zinzulusa – nell’ambito delle ben 54 cavità naturali marine aprentesi sul litorale tra Porto Badisco e Leuca – meriterebbero da sole un’escursione approfondita.

Anzitutto la grotta Romanelli, attualmente, come quella del Cervo, visitabile solo per ragioni di studio, date le ricerche in corso, ma memorabile per le campagne paleontologiche e paletnologiche compiute sin dall’inizio del secolo da parte di valenti studiosi. Qui vennero rinvenute prove della presenza dell’uomo primitivo, a partire dal paleolitico e fino all’età dei metalli. Accanto a queste, si svelarono sorprendenti, copiosissimi resti di animali scomparsi dei diversi periodi: da una fauna calda che comprendeva l’elefante, il rinoceronte, l’ippopotamo e lo sciacallo, a una fauna fredda, che oltre allo stambecco, spinto dai freddi glaciali ad affacciarsi fino a questi mari meridionali, annovera pure l’alca in penne, noto anche con il nome di pinguino boreale. Si trattava di un uccello molto strano, perchè privo di ali sviluppate, e quindi indifeso: diversamente dallo stambecco, scampato all’estinzione totale grazie al Parco Nazionale del Gran Paradiso, l’alca non è riuscito a sopravvivere fino a oggi e chi vuol vederlo dovrà accontentarsi dei rari esemplari imbalsamati nei musei zoologici, come in quelli di Roma e Firenze. A cancellarlo dalla faccia della Terra hanno provveduto, poco più di un secolo fa – e precisamente intorno al 1844 – le ciurme delle baleniere alla ricerca della carne fresca, nelle isole nordiche dove l’alca aveva trovato estremo rifugio. È grazie ai reperti della grotta Romanelli che, con un pizzico di fantasia, è possibile tentare di ricostruire il mondo del passato più o meno lontano.

In epoca antichissima le cavità del tavolato salentino non si affacciava sul mare aperto, bensì su un’ampia pianura a savana, simile a quella che oggi si ammira nell’Africa orientale. Negli strati più profondi della grotta sono state infatti rinvenute ossa della già ricordata fauna calda: il periodo è l’ultimo interglaciale, quando l’uomo non era ancora presente nella zona. Nell’ultima glaciazione, quella di Wurm – quando cioè i ghiacciai avevano occupato tutto il bacino dell’attuale lago di Garda spingendosi fino alla Calabria – il quadro faunistico cambia completamente: la savana africana si trasforma in tundra artica, con i rappresentanti della fauna boreale già ricordati. È in questo periodo – vale a dire circa 12000 anni fa, come attestano le verifiche compiute con il radiocarbonio – che compaiono le prime tracce umane: focolari e rudimentali utensili di pietra. Sulle pareti della grotta Romanelli sono stati infatti trovati graffiti con figure animali e umane che risultano i più antichi in Italia.

ingresso alla grotta zinzulusa

L’altra grotta di eccezionale interesse, accessibile sia pure con qualche limitazione al visitatore, è la Zinzulusa, curiosa anche nel nome. “Zinzuli” vuol dire localmente brandelli, frange, stracci: e di merletti frastagliati, naturalmente calcareiTag articolo, è rivestito l’accesso alla cavità. Vi si arriva dal mare o percorrendo un breve camminamento ricavato nella roccia: se ne possono ammirare circa 150 metri, mentre altri 50 restano molto opportunamente chiusi, nel buio più profondo, per ragioni di tutela biologica connessa soprattutto alla presenza di numerosi pipistrelli. La grotta venne scoperta nel 1793 dagli abitanti di Castro, e il vescovo di allora, monsignor Francesco Antonio Del Duca, la battezzò con evidente spirito classicheggiante “tempio di Minerva”. Agli albori del Novecento, si pensò di sfruttare come fertilizzanti il guano depositato a tonnellate dai chirotteri soprattutto nel grande antro detto Pipistrelli: l’estrazione durò dal 1906 al 1950. Oggi, anche il guano è praticamente esaurito, sono ancora abbondanti i pipistrelli, di cui si avverte il caratteristico squittio e si può ammirare l’impressionante volo di uscita serale in stormi numerosi e compatti. Nella parte chiusa al pubblico vivono importanti crostacei endemici, come gli anfipodi del genere Salentinella, il misidaceo Spelaeomysis bottazzii e un grosso gambero semicieco (Typhlocaris salentina), che si rifugiano nel piccolo lago del Cocito. Si tratta di esseri diafani, fragili, molli, spesso dalle lunghe appendici, strettamente adattati al loro specialissimo ambiente e incapaci di sopravvivere in condizioni appena leggermente diverse. Un altro caso di adattamento è offerto, nella stessa grotta, da alcuni capitoni biancastri e ciechi, evidente derivazione di anguille normali qui trasformate da generazioni, che vivono nel laghetto detto “la Conca” non lontano dall’ingresso della grotta alimentato in parte da acqua dolce.

Accanto a questi aspetti strettamente naturalistici, vi è l’interesse per lo scenario e il valore di una precisa testimonianza storica, che trova il suo puntuale riferimento in una grossa stalagmite alta circa due metri alla quale – se è vero, come fondatamente si suppone, che un centimetro di strato calcareo richiede per depositarsi circa un secolo – si dovrebbe attribuire la veneranda età di 20000 anni, corrispondente con ogni probabilità alla “vecchiaia” della grotta stessa.

Franco Tassi

“Il Gallo”,articolo di Lunedì 25 Luglio 2005


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