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Il Natale d’altri tempi

Il Natale, anche se dominato dal consumismo e dai continui messaggi pubblicitari dei mass-media, simboleggia comunque la pace familiare (è sempre attuale il famoso aforisma: “Pasca cu ci voi, Natale cu lli toi”), la solidarietà, la bontà e rimane, nonostante tutto, la magica festa più attesa e sentita dell’anno. Il Natale è la festa dei bambini e dei fanciulli. E proprio ai bambini e ai fanciulli di Tricase sono dedicate queste brevi righe con l’amaro rimpianto (per me) di non poter godere più, come nel passato, i profumi, i colori, i sapori e le voci della tradizione natalizia.

La Focareddha

Le focareddhe (o falò) venivano accese la sera della vigilia di Natale con uno scopo ben preciso: riscaldare il Bambino Gesù che stava per nascere. L’origine della focareddha è di natura certamente pagana e non cristiana. Il fuoco, elemento della natura, indispensabile per l’uomo, è l’unico che ha il potere di purificare e mutare irreversibilmente ciò che brucia. Il fuoco, elemento anche sacro, acceso in onore a Dio, significa riconoscere alle divinità, la glorificazione attraverso la fiamma. La fiamma ha dato tanto da pensare ai Greci, che la credevano una cosa viva, vedendola balzare ed agitarsi. La scoperta del fuoco, insomma, segnò una svolta decisiva nella storia dell’uomo, e fu sicuramente una tappa fondamentale nella storia della civiltà.

Al di là della scoperta storica e del valore che viene attribuito al fuoco, nel Salento e nella nostra Tricase la preparazione della focareddha iniziava nel passato molto tempo prima dell’arrivo del Natale. I ragazzi soprattutto accumulavano legna di ogni genere; giravano per le campagne e le case per raccogliere materiale da ardere e lo conservavano gelosamente. Ovviamente quanto più legna si raccoglieva tanto più grande sarebbe stata la focareddha.
Nel rispetto di questa antica tradizione, i vari rioni di Tricase e delle frazioni (Caprarica del Capo, S. Eufemia, Tutino, Depressa e Lucugnano) preparavano la focareddha facendo a gara per chi riusciva a fare il falò più grande. La focareddha doveva in pratica ardere tutta la notte e restare fino al mattino, perché il Bambino Gesù doveva essere riscaldato. Anche le persone del vicinato potevano prendere un po’ di fuoco e contribuire con qualche denaro per la chiesa e per il fuoco del Bambino.

La tradizione in Tricase è ancora viva, anche se le proporzioni della focareddha sono ormai modeste. Gli anziani raccontano che nel passato accanto ai falò, che erano molto più grandi, un gruppo di massaie piazzava un pentolone dove venivano fritte le “pittule” da offrire ai presenti o ai passanti insieme all’immancabile e gradito bicchiere di vino. Così facendo si veniva a creare un’atmosfera di festa, di gioia e di piacevole compagnia in attesa della nascita di Gesù Bambino.

I Giochi della vigilia

Nel passato la vigilia di Natale si trascorreva anche giocando in casa in attesa di poter partecipare alla Messa di mezzanotte. La sera della vigilia, dopo la cena, si rimaneva tutti in casa intorno alla tavola a giocare a tombola, di rado ai dadi o a dama. Ciò era molto bello e permetteva che ogni famiglia si raccogliesse e si unisse per la festa del Santo Natale.

La serata del 24 dicembre terminava con la partecipazione di tutti alla Messa di mezzanotte e alla commossa e rituale apposizione del Bambino nella grotta del presepe allestito nella Chiesa.
A mezzanotte della vigilia, per chi faceva il presepe a casa ed era la maggior parte della popolazione, c’era anche la tradizione di fare una breve e partecipata cerimonia per la nascita del Bambino Gesù. Per depositarlo nella grotta del presepio allestito sin dal giorno di Santa Lucia, si formava, in casa, una piccola processione: il Bambino Gesù era affidato al più piccolo della famiglia; poi, a uno a uno, fratelli e sorelle, parenti ed amici se c’erano, con la candela in mano; in ultimo i genitori, che intonavano e guidavano il “Tu scendi dalle stelle”, e dopo si dava inizio alle preghiere.

I Piatti tradizionali

Allora, cosa si mangiava la vigilia e il giorno di Natale?
La sera della vigilia ci si riuniva attorno al fuoco per arrostire le pigne, comprate alla fiera di Santa Lucia, e a mangiare baccalà oppure cicorie con la carne di maiale (per chi se la poteva permettere), purceddhuzzi con il miele o con lo zucchero sciolto. Ma il piatto più forte della vigilia di Natale era ed è ancora oggi rappresentato dalle pittule, soffici palline di pasta e pane, semplici o impastate con cavolfiori o baccalà, fritte con olio bollente. Accanto a queste si preparavano anche i purceddhuzzi, minuscoli pezzi di pasta dolce arrotolati sul lato esterno di una cesta per imprimere la caratteristica forma arricciata.
Non mancavano le ficariggne ossia i fichi d’India conservati sulle “pale” (foglie a cui sono attaccati), tagliate a suo tempo a fine estate. Poi c’erano noci e mandorle, “maranci”, cioè arance, “cutugni”, cioè melecotogne e “site”, cioè melagrane. C’erano anche fichi secchi e i cosiddetti “maluni de pane”, cioè meloni di colore giallo, spesso con la presenza di “taraddhi” e di “fraseddhe”, pane seccato duro, di forma quasi tonda, di colore scuro i primi e bianche le seconde. La frutta della sera della vigilia doveva assortirsi tra dodici o tredici specie differenti per rispettare la tradizione.

Le bevande erano l’immancabile vino ed acqua e alla fine (ma non per tutte le famiglie) liquori fatti in casa, come il mandarinetto, l’arancino e il limoncello.
Il giorno di Natale il menù prevedeva, secondo la tradizione, un buon pollo ruspante cotto sulla brace o un pollo ripieno (a casa mia si mangiava quello ripieno), accompagnato da rape ‘nfucate, purceddhuzzi e frutti di stagione come mandarini, arance, meloni, noci e mandorle. Come dolce pasta di mandorle o la “cupeta”, cioè torrone di zucchero e mandorle.

Francesco Accogli


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