Giuseppe Regaldi a Tricase
di Alessandro Laporta
Articolo tratto da “Terra di Leuca”, febbraio 2011, consultabile on-line a questo indirizzo.
Per avere un’idea della fama di cui godette in vita e del livello del poeta Giuseppe Regaldi (Novara 1809 – Bolzano1883) basta partire dall’articolo di Antonio Merico pubblicato sul “Tallone d’Italia” del 14 dicembre 1924 [1] che riporta tre attestati di stima nei suoi confronti. Il primo è di Alphonse De Lamartine che gli dedicò questa quartina:
Tes vers jaillissent, les miens coulent,
Dieu leur fit un lit différent;
Les miens dorment et les tiens roulent:
Je suis le lac, toi le torrent!
così tradotta in italiano
I versi tuoi zampillano, scorrono solo i miei;
è Dio che vuole l’ordine e il corso differente;
vibrano ilari i tuoi, giacciono in sonno i miei;
ebben s’io sono il lago certo il torrente sei!
Il secondo è di Vittor Hugo che di lui scrisse: “Vous avez l’ame et vous avez la voix: courage, poéte! La poésie n’est que un souffle, mais ce souffle remue le monde”. Il terzo di Edgard Quinet che ebbe a dire: “On dit que l’Italie est morte; d’autres disent que seulement elle est endormie. C’est au poéte de la réveiller, si elle dort; de la ressusciter, si elle est morte”. A questi si aggiunsero, nelle memorabili serate di Parigi, George Sand, Mery – l’Ovidio di Marsiglia – Jules Janin, ed uno stuolo di letterati francesi, ricordati da Achille De Lauzières e da Angelo De Gubernatis che dalle pagine della “Rivista Europea”, molto diffusa anche nel Meridione, costruiva il mito del poeta improvvisatore.
Per la sua notorietà in Italia sono da ricordare il De Sanctis che ebbe a definirlo l’ultimo dei trovatori ed il Carducci [2] che, avendolo collega all’Università di Bologna ed ammirandolo sinceramente, gli dedicò il carme intitolato “Alessandria”, nel 1882 in occasione della pubblicazione del suo libro sull’Egitto uscito a Firenze per i tipi di Le Monnier e lo commemorò quando si diffuse la notizia della morte (“Al feretro di G. Regaldi”, 1883). Merita poi almeno un cenno l’edizione postuma delle sue poesie, in due volumi, curata da Eugenio Camerini, nome forse più noto ai bibliografi in quanto direttore della “Biblioteca rara” del Daelli (in 62 volumi) e collaboratore di Sonzogno a Milano, che ai critici letterari, pur essendo figura centrale della cultura del suo tempo [3]. Aggiungerò che gli si deve anche la redazione di pochi ma significativi articoli nell’opera “Usi e costumi di Napoli e contorni” di Francesco De Bourcard, vera Bibbia dello spirito meridionale [4].
Ma quello che ci preme qui recuperare è la sua fortuna in Puglia e nel Salento, costruita sull’entusiasmo con cui l’accolsero i nostri concittadini nel giugno 1844 quando si spinse fino a Lecce. Poeta dotato di grande versatilità, amante dell’Italia e propagatore delle idee di Unità per cui era stato costretto ad abbandonare prima la natia Novara, poi anche Napoli dopo il ’48, invitato a Lecce da Alessio Santostefano marchese della Cerda che governava la provincia col ruolo di Intendente, aveva trovato nel Salento l’ambiente ideale per la sua brillante ispirazione, riscuotendo calorosi successi con le frequenti accademie e conquistandosi l’ammirazione soprattutto dei giovani. Il “Poliorama Pittoresco” fra i più importanti periodici partenopei, uno dei primi illustrati, aveva dato spazio quasi in diretta – come si direbbe oggi – alla sua vena poetica pubblicando nell’agosto del ’44 “Le memorie della patria” ode improvvisata in Lecce e non mancarono le attestazioni di stima di ogni ordine e grado, “per quaranta giorni” quanto durò il suo soggiorno. I suoi “Canti” editi a Napoli dalla stamperia del Fibreno nel 1847 (con prefazione del già citato Achille De Lauzières e ritratto) e l’anno successivo in una rara edizione impreziosita dal frontespizio stampato con i colori della bandiera italiana, ebbero rapidissima diffusione e furono riproposti nel 1860 andando ancora una volta a ruba[5].
Per quanto riguarda il Salento,il saggio più esaustivo ed anche il più avvincente è quello di Pietro Palumbo che rievoca dettagliatamente l’episodio e fornisce notizie e curiosità in abbondanza[6] : preceduto dallo scritto di Saverio Magno[7] e seguito da quelli di Beltrani e Malcangi[8] esso trova riscontro nei più moderni cenni di Gino Rizzo e Andrea Scardicchio[9]. Ma il posto centrale spetta a Cosimo De Giorgi che per primo sottolinea, con l’edizione dei “Bozzetti di viaggio” del 1882 (Lecce, Ed. Giuseppe Spacciante), il fascino della marina di Tricase riportando alcune strofe del “simpatico Regaldi”: si tratta del canto “Una notte nel mare Adriatico presso la scogliera di Tricase”, datato luglio 1844, che fu pubblicato sul medesimo “Poliorama Pittoresco” (7 settembre 1844) e riproposto poi da Carlo e Francesco Accogli nel loro volume del 2002[10]. E’ praticamente la prima e più antica poesia composta su Tricase e merita una completa rivalutazione, non solo per il nome dell’autore, ma per la forza dell’ispirazione, per lo stile elegante e melodioso, per la varietà delle immagini. Un piccolo mistero la circonda perché nell’edizione in volume Regaldi modificò la seconda parte del titolo sostituendolo con la frase “dalle acque di Otranto” eliminando così ogni riferimento a Tricase. Inoltre alcune varianti nel testo, in apparenza puramente formali, insistono su “Italia e Grecia” passando in secondo ordine i “cari lidi” della marina. La soluzione che propongo è quella di una amicizia “scomoda” ad Unità conseguita, che avrebbe potuto essere in qualche modo collegata al nome di Tricase: anche perché in realtà ancora non sappiamo chi accompagnò il “vate” e chi gli fu vicino nelle passeggiate salentine. Ciò non toglie che il canto rappresenti un momento di grande espressività del poeta, che siano stati il paesaggio e l’ambiente di Tricase, la scogliera, le grotte, a dare la stura alle sue armoniose esclamazioni e che l’altezza del pensiero – una sorta di sogno, un’accorata preghiera che dal mare lo solleva al cielo – nel volo vertiginoso verso il firmamento lo abbia portato a considerare la piccolezza dell’uomo.
Se si considera che la poesia fu improvvisata e raccolta stenograficamente prima di essere trascritta e pubblicata come si usava in questi casi, non si può che restare ammirati per la sua grande maestria. E Tricase, affiancando Lecce, assume un ruolo trainante nella stagione salentina del Nostro. Non risulta un secondo soggiorno di Regaldi a Tricase: il Palumbo lo vuole ancora a Napoli nel 1871 di ritorno dall’Egitto, ma una nota sicuramente errata in calce alla sua seconda poesia, che è la novità ed il motivo di questo mio scritto, ci porta ancora indietro al 1868. L’anonimo autore precisa: ”Dopo 15 anni. Rimembranza” ed aggiunge, con amarezza, questa strofa: Di quel mar sui scogli assiso così il vate un dì cantò: sparso allor d’un bel sorriso tutto intorno gli brillò. Incostanza della vita!… Sì bei luoghi a quel cantor sono ormai beltà svanita, rimembranze di dolor. La postilla dimostra quanto fosse ancora viva la memoria del suo passaggio dalle nostre parti nel 1878[11]. A mio parere giustifica anche questo moderno “ricordo” di Regaldi, la forza del suo legame con Tricase e l’attualità di queste poesie di impronta squisitamente classica, destinate a durare al di là di ogni moda letteraria.
POESIE DEDICATE ALLE MARINE DI TRICASE
La Marina di Tricase
Bello è il ciel d’Italia mia!
ogni pregio in sé raduna:
suol d’incanto e d’armonia
è l’italico giardin.
Ma ove d’Adria l’onda bruna
forma un seno e vi declina
di Tricase la marina
piaggia è amena, e suol divin.
Qui di colli un gruppo errante
si ricurva e in doppia lista
ricco d’alberi e di piante
scende scende, e abbraccia il mar.
Di lassù qual vaga vista!
Come l’onda è cristallina!
Di Tricase la marina
quanto è bella a rimirar.
De’ calor qui la stagione
a ridenti ville invita
schiere elette di persone
e da borghi e da città.
Tutto è moto, tutto è vita
festa a sera ed a mattina:
di Tricase la marina
come allegra allor si fa.
Se la luna splende in cielo
nelle notti più serene
paion l’onde argenteo velo
che riflette il suo fulgor
sulle sponde, sulle arene
per la valle e la collina:
di Tricase la marina
di bellezze brilla ognor.
Qui se penso più lucente
è il chiaror de’miei pensieri,
qui se prego lieve ardente
la mia prece s’alza in ciel:
qui mi par che ovunque imperi
virtù insolita divina…
Ti saluto alma marina
qual fra l’ombre astro fedel.
Cantin altri i ricchi ostelli,
le lor ville deliziose
le lor torri, i lor castelli
le superbe lor città:
a me queste valli ombrose,
questi poggi e queste chine,
e fra tutte le marine
sol Tricase piacerà.
Se il furor di ria sventura
ti fe’ gramo e l’alma hai mesta,
il sorriso di natura
qui t’allevia ogni martir:
se memoria ti funesta
d’altri lutti e al duol t’inclina
di Tricase la marina
molce il triste sovvenir.
Marinar, che in questa sponda
soffermasti il tuo naviglio,
e sì cara, sì gioconda
la sua vista fu per te,
narra ai tuoi con lieto ciglio
ch’è pur bella, è pur divina
di Tricase la marina
che la simile non v’è.
Una notte nel mare adriatico presso la scogliera di Tricase
Fra Grecia e Italia versa la luna
i casti argenti del suo splendor,
ed io dell’Adria sull’onda bruna
cento memorie m’agito in cor.
Voga, o barchetta, coi quattro remi
i cari lidi voglio abbracciar;
mentre frangendo l’acque tu gemi
sembri al mio pianto tu sospirar.
Gonfia Libeccio le torbid’onde
e tu, barchetta sembri varcar
colli d’argento, valli profonde
fra l’ombre arcane sparse nel mar.
Guardo fremendo l’irta costiera
nemica ai nauti, piena d’orror,
che s’alza come fatal barriera
incoronata dallo squallor.
Se fra tempeste giunge naviglio
cercando il lido della pietà
Ahi! contristato nel suo periglio
su quella piaggia porto non ha.
Fra negri massi dentro le grotte
spande paure morte crudel;
colà ravvolta nel duol la notte
sdegna la luce che vien dal ciel.
Torciamo i remi dal lido ingrato
voglio tranquillo col ciel gioir,
e delle stelle nel sen beato
versar la piena dei miei sospir.
Come son care, come son belle
le scintillanti figlie del ciel!
Parlan col riso di lor fiammelle
una dolcezza d’amor fedel.
Sono sorelle dal crine d’oro
ch’aman su l’acque d’Adria danzar
e in amoroso festevol coro
aman se stesse qui vagheggiar.
Hanno la festa dell’Albania
hanno d’Italia l’alma beltà
han nella danza quell’armonia
che da’cherubi partendo va.
In ogni face che disfavilla
sento una gioia che disparì,
e lagrimando la mia pupilla
cerca il tripudio dei corsi dì.
Vorrei levarmi dalla barchetta
sovra le penne d’un bel desir
e palpitando la benedetta
stanza degli astri vorrei scoprir.
Come nocchiero che lascia il lito
e mari ignoti tenta solcar
tal’io nel mare dell’infinito
vorrei fra nuovi regni vogar.
Mari di foco scorrer vedrei
sotto le vele del mio pensier
e della vita discoprirei
l’onnipotente fonte primier.
Nell’onda immensa dei cieli assorto
saprei raccorre lo stanco vol
in grembo al Nume ch’è mare e porto
ch’è delle stelle l’arbitro sol.
Barchetta amica, se a tanta altezza
giungere posso nel mio destin,
anco il sospiro della tua brezza
seguirà i voli del pellegrin.
Tra i nembi e gli astri l’aquila altera
ricorda il nido che la scaldò
ricorda l’erta rupe severa
dove le prime piume agitò.
Tal io dall’alta lucida sfera
te, barca mia, ricorderò
e nei concenti della preghiera
i cari lidi saluterò.
Luglio 1844